Che fine faranno le riforme del lavoro in un Paese senza maggioranza?

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20130209-194120.jpgGiampiero Falasca
Non ci vuole un genio per usare la nozione di incertezza per definire la fase che vive il nostro Paese dopo i risultati elettorali. Non bastavano il Papa dimissionario e il Presidente della Repubblica in scadenza, ora abbiamo anche una Presidenza del Consiglio in cerca – disperata – d’autore.
In questo scenario, il rischio reale è che si perdano molti mesi prima di affrontare la vera emergenza di questo periodo: il mercato del lavoro. Alcuni dati recenti dimostrano quello che tutti gli operatori del settore stanno sperimentando già da molti mesi con le proprie mani: è in corso un potente e inarrestabile processo di deindustrializzazione, da un lato, e di contrazione degli organici, dall’altro. Un Paese normale cercherebbe di affrontare la questione in maniera pragmatica, con strumenti efficaci e senza divisioni ideologiche. Ma noi non siamo, forse, un Paese normale, e di fronte a questa emergenza dobbiamo fare i conti con un assetto lavoristico attraversato da una crisi profonda.
Non si tratta di una crisi quantitativa, anzi: il legislatore, nell’ultimo decennio, è stato molto prolifico, non solo a livello di legge nazionale (gli enti locali e l’amministrazione centrali producono incessantemente norme, regole, circolari e procedure). La crisi è di contenuti o, come direbbe qualcuno, di “visione”: da un decennio l’ordinamento italiano sembra ruotare intorno ad una dicotomia molto schematica (lavoro flessibile contro lavoro precario) che ha poco rispondenza nel mercato del lavoro, che soffre di problemi diversi di cui non si occupa nessuno.
Ogni coalizione politica che diventa maggioranza parlamentare sente il dovere di mettere in legge la propria posizione sul tema della flessibilità, ma questo intervento serve solo a rassicurare i rispettivi seguaci.
Succede così che abbiamo interventi incessanti su alcune tipologie contrattuali – il part time, il lavoro intermittente, il lavoro accessorio, la somministrazione – che servono solo a dimostrare che si è fatto qualcosa coerente con le parole d’ordine che sono state pubblicizzate (“riduciamo la precarietà”, “rendiamo più flessibile il mercato del lavoro”).
In concreto, queste operazioni non vanno a toccare nessuno dei problemi reali di cui soffre il nostro mercato del lavoro. Non incidono sul tema del lavoro nero e irregolare, ed anzi creano una confusione tale che rischiano di accompagnare gli indecisi verso il mondo del sommerso.
Non aiutano le imprese, che sono soffocate da troppo norme, troppo complicate e troppo volubili.
Non aiutano i lavoratori, che si trovano dentro un mercato del lavoro dominato da regole che spaventano i datori di lavoro e quindi faticano ad entrare nel sistema.
Gli unici soggetti che, con questo modo di legiferare, diventano sempre più protagonisti (anche involontari) della gestione delle risorse umane sono gli avvocati ed i magistrati, cioè quelle figure che, in altri ordinamenti, non si occupano della fisiologia, ma solo della patologia, dei rapporti di lavoro. Nel nostro ordinamento il ruolo degli operatori del diritto è ormai cambiato: una crescita elefantiaca di regole, il loro continuo cambiamento, la pesantezza delle sanzioni connesse alla loro violazione, impediscono alle imprese di compiere delle scelte senza un confronto costante con i consulenti legali, ed aprono la strada ad un sindacato giudiziale che interessa spazi vastissimi delle scelte imprenditoriali. Il risultato è che un responsabile delle risorse umane, oggi, non fa un passo senza parlare con il suo avvocato.
Il sistema italiano avrebbe bisogno di un’operazione di profondo ripensamento basata sulla semplificazione: regole meno complesse (non è possibile prevedere decine e decine di norme per contratti semplicissimi), prevalenza ai limiti oggettivi e non interpretabili per controllare la flessibilità (quindi, addio alle causali, in favore di limiti temporali e quantitativi), accorpamento di strumenti uguali (che senso ha avere lavoro intermittente, lavoro accessorio, lavoro occasionale, e così via), riduzione di decine e decine di adempimenti del tutto inutili o ripetitivi.
Per affrontare con decisione questi temi, non serve per forza una maggioranza politica: basterebbe che la classe politica uscisse dalle comode stanze in cui passa le proprie giornate, andasse dentro le aziende e i luoghi di lavoro, ed ascoltasse le persone. Scoprirebbe qualcosa di nuovo e forse, finalmente, inizierebbe a fare riforme che rispondo a bisogni concreti, piuttosto che andare dietro a slogan vecchi e ideologici.

One comment

  1. hai perfettamente ragione, ma non occorre neppure dirlo! lavoro come HR Manager da anni con multinazionali a cui tento invano di spiegare le nostre regole, e ogni volta alla fine devo spendere denaro per far fare pareri agli avvocati da tradurre in inglese o altro a seconda della nazionalità della corporate. e ogni volta alla fine, quando il grande capo straniero di turno crede di aver capito, se va bene, il commento più utilizzato è: ma dove pensate di andare con questo caos? chi credete che investirà ancora in Italia? come dargli torto? basterebbe che a fare le norme del lavoro fossero i tecnici VERI, non quelli che vengono dalle cattedre delle università, ma quelli che hanno la quotidianeità dell’azienda sempre in mano. la frustrazione è massima e posso solo sperare in una fuga veloce verso la PENSIONE. poveri i ragazzi d’oggi però!

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