Corte di Giustizia UE: si possono licenziare le mamme nell’ambito di una riduzione collettiva di personale

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Una legge nazionale che consente di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo non è contraria al diritto comunitario; ciascuno Stato Membro resta, tuttavia, libero di prevedere forme di tutele più forti per le dipendenti madri e gestanti. Con queste la sentenza della Corte di Giustizia pubblicata ieri (Causa C 103\2016), ha rimosso ogni dubbio circa la legittimità della normativa vigente in Spagna in materia di licenziamenti collettivi.

La controversia è nata a seguito del licenziamento intimato nei confronti di una lavoratrice in stato di gravidanza, nell’ambito di una procedura di riduzione collettiva del personale avviata da una banca spagnola.

Tale recesso è stato intimato nel rispetto delle norme spagnole, che vietano il licenziamento delle lavoratrici gestanti salvo il caso in cui il recesso sia dovuto a motivi non riguardanti la gravidanza o l’esercizio del diritto ai permessi e all’aspettativa conseguenti alla maternità.

Il Giudice locale ha sollevato la questione del possibile contrasto con le norme della Direttiva n. 85 del 1992,  con la quale sono definite misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.

La Corte di Giustizia ritiene infondato questo dubbio, rilevando che il divieto di licenziamento posto dalla direttiva n. 92/85 mira a prevenire gli effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, che può generare un rischio di licenziamento per motivi connessi al loro stato.

Per prevenire questo rischio, sono previste pesanti sanzioni per tutti i provvedimenti che abbiano come presupposto lo stato personale della lavoratrice. Al contrario, osserva la Corte, la direttiva non vieta il licenziamento  durante il periodo che va dall’inizio della gravidanza fino al termine del congedo di maternità, qualora l’atto sia fondato su motivi non connessi allo stato di gravidanza della lavoratrice.

Tali motivi possono essere, precisa la Corte, economici, tecnici o relativi all’organizzazione o alla produzione dell’impresa, e devono essere indicati per iscritto  al datore di lavoro, il quale deve indicare alla lavoratrice gestante i criteri oggettivi adottati per designare i lavoratori da licenziare.

La Corte prende posizione anche in merito al regime sanzionatorio applicabile ai casi di recesso discriminatorio, precisando che la tutela risarcitoria in favore delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento non può sostituire la tutela a titolo preventivo.

Tale conclusione viene formulata partendo dalla considerazione che gli Stati membri sono obbligati, nell’attuare una direttiva, a garantire la piena efficacia di questa, pur disponendo di un ampio margine discrezionale per quanto riguarda la scelta delle modalità e dei mezzi destinati a garantirne l’attuazione. Nel caso concreto, la Corte rileva che l’efficace prevenzione del licenziamento discriminatorio delle lavoratrici madri e gestanti  non può essere assicurata solo dal semplice diritto al risarcimento del danno, ma passa anche per misure che prevengano l’intimazione del recesso.

La sentenza – nella parte relativa alla possibilità di licenziare le lavoratrici madri nell’ambito di una procedura di riduzione del personale – potrebbe (in linea teorica) legittimare un ripensamento delle norme vigenti, ma non avrà alcun impatto immediato sulle norme vigenti, che impediscono, anche in caso di licenziamento collettivo, il licenziamento della lavoratrice madre, a meno che non ci sia una chiusura dell’intera azienda.

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