Quale orientamento per la nuova Agenzia nazionale del lavoro

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Francesco Giubileo

Nel dibattito attuale su come sviluppare e realizzerà la nuova Agenzia nazionale del lavoro (Agenzia) si stanno confrontando idee e visioni diverse e  i nodi critici di tale dibattito riguarda in prima battuta il rapporto Stato/Regioni sia nella fase di progettazione delle politiche attive del lavoro, sia nella governance dei servizi pubblici per l’impiego. Altre questioni sono: quali attori (pubblici o privati) saranno chiamati alla realizzazione di tali compiti ? con quali ruoli e risorse ?

Rispondere al quesito è molto difficile,  tale Riforma fa parte di un disegno normativo dalle dimensioni “titaniche” in quanto tocca tutto il quadro delle politiche del lavoro , regolamentazione compresa. Il tutto attraverso un complesso intreccio di norme che vanno dal provvedimento Delrio (legge n. 56/2014), alla riforma costituzionale del Titolo V (ddl A.C. 2613) fino alla delega prevista dal Jobs Act (legge n.183/2014).

Sotto molti aspetti il Jobs Act ripercorre le Riforme Hartz (“Servizi moderni al mercato del lavoro”) realizzata in Germania nei primi anni 2000,  un percorso suddiviso in più parti e che ha richiesto diversi anni per la sua concreta applicazione.

 

La Lokomotiva d’Europa e le Riforme Hartz, esempio da seguire ?

 

In Germania l’Agenzia Federale per il Lavoro (Bundesanstalt für Arbeit) gestisce congiuntamente con gli enti locali i Centri per l’impiego (PES), in quelle che sono chiamate Argen o Comunità lavoro ( a differenza delle agenzie a conduzione solo municipale, note come Opkom).

Tenete conto che la ristrutturazione dell’ente federale per il lavoro (Bundesanstalt für Arbeit) in Agenzia Federale per il Lavoro (Bundesagentur für Arbeit) è stata realizzata dal Piano Hartz III dal 2004 e il motivo prevalente di tale riforma era perché dei circa 100000 dipendenti, oltre l’85% rivestiva ruoli amministrativi e non di erogazione dei servizi al lavoro.

Ad oggi la maggioranza di quei lavoratori svolge ancora attività svincolate dalla mediazione, tanto che il rapporto 1/50 tra operatore e disoccupato (ovvero un rapporto 10 volte più grande di quello italiano) che spesso viene “decantato”quando si parla di modello tedesco è privo di una reale concretezza, perché solo una piccola parte di quel esercito di dipendenti eroga effettivamente dei servizi.

Tanto che già dal 2003, in un’ottica di sussidiarietà e collaborazione tra operatori pubblici e privati dei servizi per l’impiego, la riforma Hartz I, aveva dato la possibilità alle agenzie pubbliche del lavoro di costituire nel proprio distretto una Agenzia di Personal Service (Personal-Service-Agentur – PSA). Compito delle PSA era l’intermediazione di persone disoccupate, in condizioni particolari di svantaggio, nella forma della somministrazione di lavoro o fornitura di manodopera presso un’azienda utilizzatrice. L’obiettivo era quello di collocare il lavoratore stabilmente presso l’azienda utilizzatrice e gestirne il passaggio, dalla PSA ad un rapporto di lavoro non sostenuto dagli incentivi pubblici.

Le PSA si finanziavano attraverso le sovvenzioni e gli incentivi, commisurati agli obiettivi, corrisposti dall’Agenzia per il Lavoro e attraverso i prelievi sui pagamenti del lavoro in affitto. I premi erano così suddivisi: un compenso su base mensile (base subsidy) per ogni disoccupato “preso in carico”; e  un “premio di collocamento” (placement premium). Entrambi gli incentivi erano decrescenti al crescere del tempo impiegato per collocare il lavoratore.

Fino al 2006, ogni agenzia territoriale era tenuta a creare al suo interno almeno una di queste PSA. Nel tempo però, il loro numero è diminuito in seguito all’abolizione dell’obbligo (con decorrenza dal 1 gennaio 2009), dopo che alcuni studi hanno evidenziato risultati negativi e lontani da quelli inizialmente auspicati, ponendo forti dubbi sul fatto che i costi elevati di finanziamento delle PSA erano economicamente giustificabili.

Dopo le PSA, si è intensificato un modello di delega “puro” verso l’agenzie private tramite il voucher di intermediazione (Vermittlungsgutschein); seppur tale delega presenti dei miglioramenti rispetto all’esperienza delle PSA, tuttavia nel 2009 risulta che su 800.000 voucher utilizzati i soggetti ricollocati sono stati appena 50000, circa il 6 % (dati della stessa Bundesanstalt für Arbeit).

In sintesi, l’Agenzia federale tedesca costa miliardi di euro all’anno, ma non avendo abbastanza operatori per l’attività di intermediazione, in questi anni ha delegato al privato: prima tramite strutture ibride note come PSA, le quali non hanno funzionato; per poi passare sempre di più  tramite i Voucher (all’interno di un classico modello pubblico/privato complementare), verso operatori privati che purtroppo collocano comunque un numero molto basso di disoccupati.

A questo punto mi chiedo, da dove nasce questa “enfasi” politica verso il modello tedesco ? Immagino, dalla tabella seguente.

 

Tabella 1 – Tasso di disoccupazione complessivo e giovanile.

Paese 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
Germania 8,5 7,4 7,6 7,0 5,8 5,4 5,2
Italia 6,1 6,7 7,8 8,4 8,4 10,7 12,2
Olanda 3,6 3,1 3,7 4,5 4,4 5,3 6,7
Tasso di disoccupazione Under 25’
Paese 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
Germania 11,8 10,4 11,1 9,8 8,5 8,0 7,8
Italia 20,3 21,3 25,4 27,8 29,1 35,3 40,0
Olanda 7,0 6,3 7,7 8,7 7,6 9,5 11,0

Fonte: Elaborazioni dati Eurostat, 2014.

 

Effettivamente l’attore pubblico in Germania assume ancora oggi un ruolo rilevante nella ricerca di un lavoro, anche se è stato spodestato e in parte sostituito dall’avvento di internet e dalla mediazione diretta tra azienda e forza lavoro via web. Inoltre, la Bundesanstalt für Arbeit rappresenta una delle strutture più innovative in termini di governance e valutazione dei propri dipendenti, ma nonostante sia una Agenzia nazionale, i margini di discrezionalità offerta alle istituzioni sub-nazionali sono simili a quello italiana, tranne la programmazione. Pertanto dobbiamo chiederci: la “ricentralizzare” della programmazione a livello nazionale è la formula del successo tedesco ?

 

Schema 1 – Livello di flessibilità sub-regionale nei paesi Europei

Paese Risorse economiche* Definizione dei programmi di politica attiva** Ammissibilità*** Performance Management Valutazione Qualità del servizio Indicatori di successo Rapporto Annuale
Specific o General Off-flows Benefit Durations Vacancy Outcomes
Germania Medio Medio Medio Medio x x x x x
Italia Medio Alto Medio Nessuna valutazione****
Olanda Solo statale Medio Solo statale Medio x x x x
* Alta flessibilità significa propria fiscalità; mentre medio flessibilità comprende due categorie “fondi speciali” o/e “promozione di finanziamenti”.
**Il livello di Flessibilità dipende da quanto la Regione è coinvolta nella progettazione o libera di creare spontaneamente i programmi.
***Livello di flessibilità dipende da quanto i Pes Sub-Regionali possono stabilire i criteri di ammissibilità per accedere ai programmi.
****Assenza di raccolta delle informazioni. Sistema altamente differenziato a livello locale impossibile definire un quadro nazionale.

Fonte: Elaborazioni dati Eurostat, 2014.

 

Anticipo che il materiale che esporrò nelle prossime pagine, smentirà categoricamente questa possibilità e che il modello di successo tedesco non ha nulla a che vedere con le politiche del lavoro.

Innanzitutto, l’impatto delle politiche attive del lavoro in Germania sono uno degli ambiti più studiati in Europa (tra i più rilevanti studiosi basta citare Kluve e Caliendo entrambi noti ricercatori dell’istituto di ricerca IZA, uno dei più importanti istituti di ricerca nel campo dell’economia del lavoro al mondo). A spanne, queste valutazioni (qui intendiamo analisi empiriche, rigorosamente contro-fattuali – Prosperity score matching; Difference in Differences per intenderci) dicono che l’impatto della formazione professionale ai disoccupati è pari a zero, la creazione diretta di lavoro produce per i giovani addirittura spiazzamento nel mercato del lavoro, orientamento ed accompagnamento al lavoro hanno un effetto quasi nullo, insomma della programmazione nazionale sulle politiche attive del lavoro l’impatto nel mercato del lavoro è trascurabile se non irrilevante.

Gli unici strumenti che funzionano sono gli incentivi occupazionali, anche se non mancati casi di “peso-morto” (effetto nullo) o elevati abusi delle Ich-AG (sussidio per la creazione di una ditta individuale).

Uno dei pochi strumenti di deregolamentazione che sembra essere servito sono stati i Mini o Midi Job (esonero totale o parziale dei contributi per lavori con stipendi bassi), che sembra aver ridotto parte della disoccupazione (anche se l’impatto diretto verso i disoccupati con sussidio e bassissimo) e il lavoro nero, ma aver nello stesso tempo creato milioni di lavoratori poveri, più o meno come i bad-jobs nel Regno Unito.

A questo punto arriviamo alla parola magica (non temete, non mi sono dimenticato), ovvero che la formula del successo tedesco è la famosa transizione scuola/lavoro e il loro modello di apprendistato.

Tuttavia, la relazione tra  modello duale e il successo economico tedesco non esiste, non c’è nessuno studio, analisi (se non articoli giornalistici che raccontano la bella “novella” di un paio di casi aziendali) che prova che il modello duale tedesco funzioni.

Innanzitutto perché lo strumento è usato pochissimo, riprendo quanto scrive Philippe Legrain (Prospect, Regno Unito – tradotto su Internazionale, 14/20 novembre 2014 , Non invidiate la Germania): “se all’estero i suoi contratti di apprendistato sono molto ammirati, i giovani tedeschi sono decisamente meno entusiasti. Il numero dei nuovi apprendisti è sceso ai livelli minimi dalla riunificazione 1990”. A ciò aggiungo quanto dichiara  Tamar Jacoby (Why Germany Is So Much Better at Training Its Workers, The Atlantic,22/10/2014) che gli investimenti fatti dalle aziende tedesche per singolo apprendista sono spaventose (vanno dai 20 ai 70 mila euro), lo stesso autore evidenziava come è impensabile esportare nel modello americano, ripeto americano, il sistema duale tedesco costerebbe a spanne 170 mila dollari per apprendista. Inoltre, raccogliendo le considerazioni dei massimi economisti al mondo, tra cui Paul Krugman, i quali non criticano come il sottoscritto l’idea di investire in capitale umano, ma piuttosto evidenziano come nell’attuale mercato del lavoro non si trova una concreta evidenza empirica in merito alla relazione tra formazione scuola/lavoro e retribuzione/stabilizzazione contrattuale  (ad esempio confrontando Apprendisti e semplici lavoratori per medesimo titolo di studio !).

Tornando a Philippe Legrain, sempre nello stesso contributi spiega, dati alla mano, come lo sviluppo tedesco non è legato all’eccellenza nella ricerca & sviluppo o negli investimenti, ma da una economica che negli ultimi anni grazie anche alla moneta unica ha esportato tantissimo e adesso inizia ad arrancare.

Infine, altro fattore di successo del modello tedesco, secondo Christian Dustmann, Bernd Fitzenberger, Uta Schonberg e Alexandra Spitz-Oener (Il segreto della ripresa tedesca, LaVoce.info, 10/02/2014) non è l’Agenzia nazionale o i suoi  80mila dipendenti, i Mini-jobs o il modello duale che hanno contribuito  pochissimo ad incentivare la ricerca di lavoro, ma è stata la specifica struttura delle relazioni industriali tedesche che ha aperto la strada alla notevole “decentralizzazione” della negoziazione salariale (contrattazione dai Lander).

 

 

Il modello olandese:la forte spinta alla competitività

 

I Paesi Bassi sono l’esatto contrario al modello tedesco di gestione e governance delle politiche del lavoro. Il sistema  di regolamentazione pubblico/privato rappresenta un “caso studio” interessante perché attraverso opportuni meccanismi di controllo e “contrappeso”, è capace di incentivare al massimo il mercato e nello stesso tempo ottenere anche un buon servizi pubblico per l’impiego.

La riforma olandese della gestione e fornitura dei servizi pubblici all’impiego si è realizzata in diverse fasi. Nel 1998, il progetto nazionale Reintegratie, coinvolse il settore privato ad intervenire in ambiti, che fino a poco tempo prima erano esclusivi dell’attore pubblici, non ultimo il settore delle reintegrazione. Tuttavia, dopo i primi programmi di reintegrazione, ci si rese conto che le strutture pubbliche, in piena fase di ristrutturazione e di cambiamento, non sarebbero mai riuscite ad intervenire in modo decisivo nel reintegro della forza lavoro disoccupata, all’interno di una ottica di welfare to work.

Ecco che dal 2002, anno di entrata il vigore del Work and Incombe Implementation Act (legge sulla struttura di implementazione per il lavoro e il reddito, conosciuta con l’acronimo SUWI), si è stabilito che i programmi di reintegrazione (educazione, formazione e lavoro) fossero affidati, in via esclusiva, a fornitori privati individuati tramite procedure di evidenza pubblica.

La riforma ha previsto la chiusura dei Servizi Pubblici dell’Impiego, sostituiti dall’Ente per l’implementazione dell’assicurazione dei lavoratori (UWV-Werkbedrijf), che gestisce ancora oggi il rapporto tra le autorità locali e le agenzie di erogazione dei sussidi.

A ciò si aggiunge l’aspetto di maggiore interesse del modello olandese, l’organismo pubblico non eroga direttamente i servizi di ricollocamento, ma li acquista sul mercato privato tramite gare di appalto. Tale “monopolio” dei privati nell’erogazione dei servizi, secondo i promotori della riforma, è finalizzato a realizzare un risparmio sulla spesa sociale e favorire una maggiore competizione delle società private in grado di stimolare il miglioramento della qualità dei servizi offerti.

 

Schema 2 – Modello base del sistema Olandese

 

 

Fonte: Elaborazioni da Bruttel O., (2005), Contracting-out and Governance Mechanisms in the Public Employment Service, Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung (WZB), Berlin.

 

In Olanda è quasi impossibile per l’attore privato fare cherry picking (scrematura) degli utenti, perché attraverso l’attività di profiling, chiamata chance-meter l’assegnazione delle risorse è commisurata alle difficoltà del destinatario di rientrare nel mercato del lavoro. Inoltre, il modello olandese ha modificato il proprio sistema di pagamento, in modo da ridurre i fenomeni di parking. Infatti, il servizio di collocamento (il più importante anche in termini economici), dipende completamente dai risultati (no cure – no pay); cioè il fornitore privato riceve il pagamento solo se la persona è stata occupata in un posto di lavoro con una durata di almeno sei mesi; possono poi esserci dei bonus aggiuntivi per la rapidità col quale sono effettuate le collocazioni e se il salario del nuovo posto di lavoro riduce il ricorso a indennità e sussidi.

Allo scopo di disincentivare l’attività di gaming (manipolazione dei risultati), un’ultima tranche di pagamento riguarda i servizi post- placement (più l’utente rimane nel mercato, più soldi prende l’agente delegato).

In realtà, cherry picking, parking, gaming sono fenomeni circoscritti in Olanda, anche perché gli stessi fornitori di servizi sono consapevoli di eventuali comportamenti opportunistici all’interno di una relazione “principale – agente”, per questo le agenzie private si sono organizzate in un’associazione di categoria, denominata Borea (dal 2007 Boaborea), la quale stabilisce con il governo nazionale il profilo e i parametri dei contratti, oltre che farsi garante della qualità dell’offerta.

Monitoraggi e valutazioni sono realizzati annualmente tramite una scala ben definita di indicatori (prevalentemente oggettivi e misurabili), negli ultimi anni c’è stato un forte investimento nelle nuove tecnologie, infatti la “presa in carico” avviene solo on-line, le persone svantaggiate sono al massimo assistite nella compilazione dei loro dati e nei primi tre mesi di disoccupazione l’assistenza avviene solo tramite web

Tale azione è giustificata da l’esigenza di ridurre la spesa in servizi al lavoro e in politiche del lavoro che rimane la più alta d’Europa. Infatti, per ogni disoccupato che si reca ai centri per l’impiego si spende circa 30 mila euro all’anno, contro i circa 14 mila in Italia e 15 mila in Germania.

 

 

Risorse, problematiche e suggerimenti per la nuova Agenzia

 

Dai dati Eurostat sulla spesa in politiche del lavoro, va evidenziato come in Italia la spesa è cresciuta tantissimo (81 %) tra il 2007 e il 2012, mentre nello stesso periodo in Germania si è ridotta del 10 %.

In Germania si sono fatti investimenti in Servizi pubblici per l’impiego, mentre si sono ridotte le risorse in politiche passive, esattamente il contrario di quanto è successo in Italia, si sono dimezzate le risorse in Servizi pubblici per l’impiego e nello stesso tempo si sono più che raddoppiate le risorse in politiche passive.

 

Tabella 2 – Spesa in politiche del lavoro

Italia Germania Olanda
2007 2012 2007 2012 2007 2012
Servizi pubblici per l’impiego 600,31 396,93 6.919,69 9.111,79 1.927,71 1.754,89
Formazione 2.860,96 2.319,12 6.224,14 5.967,72 557,83 679,10
Incentivi economici 2.377,76 2.816,80 1.531,53 891,75 924,43 501,40
Accompagnamento al lavoro n.d. 132,46 767,91 2.658,45 2.716,56
Programmi di creazione al lavoro 129,54 76,52 1.613,46 849,31 n.d.
Incentivi occupazionali 434,52 222,94 1.865,62 927,12 n.d.
Ammortizzatori sociali 9.362,19 24.018,73 29.976,33 24.814,70 8.039,70 11.516,50
Pre-Pensionamento 1.351,50 1.246,05 1.400,51 1.315,18 n.d.
Politiche attive 5.802,77 5.435,39 11.367,21 9.403,81 4.140,71 3.897,06
Politiche passive 10.713,69 25.264,78 31.376,84 26.129,88 8.039,70 11.516,50
Totale 17.116,77 31.097,10 49.663,74 44.645,48 14.108,13 17.168,45
 *Valori espessi in Milioni di Euro.
Disoccupati iscritti ai Pes n.d. 2215037 3238421 2896985 489800 568700

Fonte: Elaborazioni dati Eurostat, 2014.

 

Tuttavia, dichiarare che in Germania si è ridotta la disoccupazione per merito degli investimenti nei Centri per l’impiego è sbagliato (a mio giudizio è una banale  fallacia ecologica), perché le valutazioni degli strumenti sono tutt’altro che positive e come sottolineano gli autori citati precedentemente il merito è da attribuire alle dinamiche macro-economiche (export e contrattazione decentrata).

Questo non toglie che almeno un miliardo su 25 dedicati alle politiche passive sarebbe opportuno utilizzarlo nella riorganizzazione della nuova Agenzia nazionale del lavoro e dei relativi servizi pubblici per l’impiego  (nei fatti la spesa sarebbe tre volte quella attuale).

L’Agenzia nazionale del lavoro dovrebbe ispirarsi non tanto ai sistema olandese o tedesco, ma piuttosto generalizzare la Dote Unica del lavoro realizzata in Regione Lombardia  che rappresenta certamente uno degli strumenti più innovativi presenti non solo in Italia, ma anche in Europa.

Non solo perché realizza un modello di “quasi-mercato” spendendo circa il 3% di quanto spendono gli olandesi, ma il sistema lombardo si è persino evoluto, offrendo proprie peculiarità: un rating degli operatori (pubblici e privati) con una ridistribuzione delle risorse a seconda dei risultati occupazionali ottenuti; una verifica patrimoniale e di Compliance 231 degli attori accreditati (inesistente nelle altre regione italiane); l’aver convinto le società di somministrazione a investire nell’ambito della ricollocazione  del personale, attività volta alla costituzione di una filiera dei servizi che si spera un domani possa “camminare con le proprie gambe” all’interno di una prospettiva economica che vedrà sempre meno risorse pubbliche.

Ovviamente investire in politiche attive e nella ricollocazione è una difficile decisione politica: togliere risorse per gli ammortizzatori sociali ai disoccupati rappresenta sotto un “azzardo” politico, cosa succede se i programmi di ricollocamento non funzionano e non danno risultati ?

A ciò aggiungo che neppure con 9 miliardi di euro investiti nei servizi pubblici per l’impiego come in Germania si otterrebbero risultati convincenti, per due motivi: il primo riguarda Curva di Beveridge in Italia, guardate la linea rossa del seguente grafico, mai il tasso di posti vacanti è stato così basso, siamo allo zero frizionale contro una disoccupazione sempre più elevata.

E’ importante evidenziare come le politiche del lavoro non sono la “cura” alla disoccupazione, il problema del nostro paese non è certo una scarsa mediazione tra domanda e offerta di lavoro oppure una non corretta transizione scuola/lavoro (effetto sovra-istruzione molto esteso), ma riguarda l’eccesso di offerta di lavoro, verso la quale le soluzione vanno trovate nel campo degli investimenti strategici e di economia di sviluppo che esulano dalle mie competenze.

 

Grafico – Curva di Beveridge in Italia 2008 – 2013

Fonte: Elaborazioni dati Banca d’Italia, 2013

 

Una seconda questione riguarda la “valutazione”: lo Schema 1 (presentato precedentemente) è inquietante, l’Italia è l’unico paese insieme a Malta che non realizza valutazione dei Centri per l’impiego e pensate già nel 2007 Jochen Kluve nella più importante valutazione delle politiche attive in Europa (Active Labor Market Policies in Europe: Performance and Perspectives, Springer, Berlin),  evidenziava come  l’Italia era l’unico paese che non si poteva valutare, perché gli enti non raccoglievano i dati.

In conclusione di questo lunga serie di considerazioni, delineo quali dovrebbero rappresentare le linee guida della nuova Agenzia nazionale del lavoro.

Data per acquisito che la responsabilità legislativa delle politiche attive del lavoro torni allo Stato (la direzione mi sembra ormai chiara e definitiva), decisione giustificata dalla totale incapacità di alcune regione (prevalentemente quelle del Sud) di aver realizzato programmi di politica attiva efficaci, i quali in molti casi

hanno prodotto la moltiplicazione di enti e funzionari senza parlare del diffuso parcheggio dei disoccupati in attività non coerenti con il loro reinserimento nel mercato del lavoro. Tuttavia, sarebbe opportuno che la programmazione delle stesse politiche possa rimanere in capo alle regioni, all’interno di un principio di sussidiarietà verticale, nel quale in caso la Regione fosse inadempiente o non raggiungesse determinati obiettivi concordati con l’Agenzia, quest’ultima può intervenire ed eventualmente sospendere i finanziamenti, commissariando a livello nazionale la programmazione e gestione delle politiche attive. L’importante, come sottolinea Weishaupt (2014, Central Steering Local Autonomy Analytical, Pes to Pes Dialogue, Brussels) è  la valutazione, ovvero la presenza o meno di sanzioni o premi nei confronti dei Pes Sub-nazionali o dei propri operatori  incompetenti. A mio giudizio la vera  priorità della nuova Agenzia nazionale del lavoro non è quello di riprendersi competenze, quanto piuttosto obbligare/aiutare le Regioni al raggiungimento di determinati obiettivi attraverso l’analisi di indicatori chiari, comparabili e il più possibile oggettivi (il riquadro seguente raccoglie le principali raccomandazione a livello internazionale di governance e decentramento amministrativo).

 

Riquadro – Raccomandazione sulla Governance e sul Decentramento amministrativo

Indicatori Raccomandazioni
Indicazione generale Flessibilità locale per sviluppare strategie congiunte, strutture di governance multilivello in grado di garantire a livello Regionale piena padronanza dell’ambito gestionale e anche di budget. È necessaria la definizione di standard minimi definiti a livello nazionale per ridurre la frammentazione (senza escludere modelli Sub-Regionali che presentano una ricchezza di informazioni maggiore).
Innovazione Scambio di informazioni, ad esempio, attraverso manuali nazionali che ritraggono le innovazioni locali / buono pratiche; va introdotta la possibile rotazione del personale e la definizione di workshop congiunti per lo scambio di reciproche esperienze.
Performance Management Il decentramento deve essere accompagnato da moderni sistemi di monitoraggio delle  prestazioni attraverso obiettivi e indicatori quantificati  e consentire valutazioni sistematiche; I sistemi di gestione delle prestazioni devono essere progettati “a due vie” dove gli attori locali possono deliberare senza entrare in conflitto con l’attore centrale; Definizione di procedure nazionali per raccolta e gestione dei dati in grado di  garantire la comparabilità attraverso indicatori comuni.È necessario il monitoraggio e la verifica della raccolta dei dati locali (ad esempio attraverso comitati consultivi o “comitati d’esame”, che possono includere le parti sociali, gli attori della società civile, o docenti universitari); Fornire incentivi (premi e sanzioni) per garantire l ‘impegno da parte del personale.

Fonte: Elaborazioni da Wood D., (2011), Managing Accountability and Flexibility in Labour Market Policy, Issues Paper, OECD Publishing; Froy, F., Giguère, S., Pyne, L. & Wood, D. E. 2011. Building Flexibility and Accountability Into Local Employment Services: Synthesis of OECD Studies in Belgium, Canada, Denmark and the Netherlands, OECD Publishing.

 

 

 

 

 

 

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