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Il giudizio medico di idoneità alla mansione, un rompicapo da risolvere

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Paolo De Luca

La complessità del nostro diritto del lavoro, sempre più al centro del dibattito pubblico, non dipende sempre e solo dal numero eccessivo delle leggi o dalla loro scarsa chiarezza. Lo dimostra il fatto che a volte, pur in presenza di leggi chiare, si creano situazioni inutilmente incomprensibili e paradossali. Sempre più imprese, per  esempio, si stanno trovando in grossissima difficoltà nella gestione dei giudizi medici di idoneità o idoneità alla mansione per le attività soggette alla sorveglianza sanitaria prevista dal Testo Unico Sicurezza (Decreto n. 81/2008). Da dove origina il problema? Il nostro ordinamento prevede che, in presenza di determinati presupposti di legge, i lavoratori debbano essere sottoposti, con cadenza periodica, ad una visita medica da parte del medico competente finalizzata a verificare l’idoneità degli stessi alla mansione specifica, e regola in modo apparentemente chiaro le conseguenze di tali giudizi. Il datore di lavoro deve attuare rigorosamente le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, deve provare a ricollocare il lavoratore in un’altra mansione (anche inferiore) purché esistente, disponibile e compatibile con lo stato di salute. Il vero rompicapo, in questo ambito, sono i giudizi medici di “inidoneità” mascherati da giudizi di “idoneità con prescrizioni o limitazioni”. Ecco un esempio: un lavoratore che di mestiere solleva pesi (ad esempio un addetto al magazzino) e che per sopravvenuti problemi fisici non può più sollevarli, non viene dichiarato “inidoneo“, bensì “idoneo con la limitazione di non sollevare pesi“. Giudizi medici di questo tipo creano un vero e proprio rompicapo. Le limitazioni indicate ( a cui il datore dovrebbe, in teoria, attenersi scrupolosamente) non consentono infatti un proficuo utilizzo del dipendente nell’ambito dell’organizzazione aziendale, rendendo di fatto inutile la prestazione lavorativa. Il problema è davvero attuale, come sanno bene, tra gli altri, gli operatori del settore della grande distribuzione e della logistica. Questi giudizi vanno maneggiati con molta attenzione, per non commettere errori. Innanzitutto, è consigliabile che le imprese impugnino tali giudizi, entro 30 giorni, dinanzi all’organo di vigilanza territorialmente competente (variamente denominato a seconda delle regioni: Spresal, Spisal etc), chiedendo l’emissione di un giudizio di “inidoneità”. Se però l’organo di vigilanza conferma, come spesso avviene, il giudizio del medico competente, il problema resta aperto e siamo punto e daccapo. L’impresa, non potendo mantenere il lavoratore inattivo, dovrà comunque verificare al proprio interno se esistono posizioni lavorative alternative (anche inferiori). In mancanza, non potrà che valutare l’ipotesi del recesso dal rapporto di lavoro. Attenzione, però: trattandosi di un giudizio di idoneità con limitazioni – e non di inidoneità – la prova in merito alla impossibilità di un proficuo utilizzo e di un diverso reimpiego (il cd repêchage) dovrà essere particolarmente rigorosa, posto che la legge (art. 42 del decreto 81/2008) sembrerebbe limitare l’ambito di tali verifiche ai soli giudizi di inidoneità. Insomma, vicende come queste dimostrano che la complessità e la semplicità non sono solo questione di tecnica legislativa, ma sono una forma mentale. Ridurre il numero delle leggi e semplificarle è certamente importante, ma applicare correttamente quelle che già esistono è altrettanto apprezzabile. La semplicità non dipende solo dalle leggi. Tutti possono fare la loro parte per rendere il nostro ordinamento meno cervellotico: anche i medici competenti, evitando di emettere i giudizi di idoneità “rebus”.

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