Un appalto di servizi non può prevedere la semplice messa a disposizione di un pacchetto di ore lavorative in favore di un terzo, rese da lavoratori coordinati dal soggetto che riceve la prestazioni: questa operazione configura una somministrazione di personale e, come tale, può essere realizzata solo dalle Agenzie per il lavoro autorizzate a svolgere questa attività dal Ministero del Lavoro.
Il Consiglio di Stato (sentenza n. 1571 del 12 marzo scorso) ricorda questo principio tanto scontato a livello normativo e teorico (non mancano i precedenti al riguardo), quanto disatteso a livello applicativo (il modello oggetto della controversia è, infatti, molto diffuso nel mercato dei servizi).
La vicenda riguarda il bando di gara predisposto da una ASL per l’affidamento a terzi, mediante contratto di appalto, del compito di svolgere alcune attività di supporto ai propri uffici (supporto giuridico, amministrativo, tecnico e contabile; supporto e gestione dei servizi centrali, distrettuali e ospedalieri; archiviazione, data entry e front office; supporto amministrativo contabile; segreteria).
Un’Agenzia di somministrazione di manodopera ha impugnato il bando, sostenendo che le attività messe a gara non potevano essere configurate come un “appalto di servizi”, ma si concretizzavano in una somministrazione di personale (attività, come detto, riservata per legge alle sole Agenzie per il Lavoro).
Il Consiglio di Stato, rovesciando la precedente pronuncia del TAR, ha accolto il ricorso dell’Agenzia, ricordando i criteri definiti dalla Corte di Cassazione per smascherare gli appalti illeciti: la richiesta di un certo numero di ore di lavoro, l’inserimento stabile del personale nel ciclo produttivo del committente, l’identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore e dai dipendenti del committente, la proprietà del committente delle attrezzature necessarie per l’ attività e l’organizzazione da parte del committente dei dipendenti dell’appaltatore (Cass. civ., sez. lav., 7 febbraio 2017, n. 3178).
Questi indici sono presenti, secondo il Consiglio di Stato, nel bando oggetto della controversia. La ASL prevede, infatti, di acquistare un numero di ore di lavoro annue, per integrare il proprio personale interno con altro personale esterno, in modo garantire il regolare svolgimento delle proprie attività.
Tale impostazione sfugge alla logica tipica dell’appalto di servizi, nel quale l’appaltante affida all’appaltatore lo svolgimento di prestazioni connesse ad un preciso risultato, finalizzate alla realizzazione di un opus dotato di consistenza autonoma.
Neppure è previsto che l’appaltatore metta a disposizione mezzi ed attrezzature: il personale dell’appaltatore deve utilizzare, infatti, mezzi ed attrezzature della ASL (quali computer, cancelleria, fotocopiatrici etc.), prestando la propria attività presso la sede della stessa.
Il Consiglio di Stato rileva, inoltre, la carenza di misure finalizzate a scongiurare l’interferenza e la commistione tra i lavoratori di committente e appaltatore, e l’assenza di confini certi nelle rispettive fasi di produzione.
Le generiche clausole del capitolato secondo le quali “i servizi verranno svolti con esclusiva organizzazione, responsabilità e rischio della ditta aggiudicataria” vengono considerate ininfluenti, a fronte dell’assenza di elementi concreti in grado di confermare l’autonomia imprenditoriale dell’appaltatore. Manca, infine, il rischio di impresa, considerato che l’aggiudicatario non si fa carico dei costi per l’acquisto e l’organizzazione dei mezzi e non dimostra un apporto di capitale, di know-how e di beni immateriali.
Come accennato, il fenomeno dell’appalto illecito ha dimensioni molto ampie, e contribuisce a generare fenomeni di dumping contrattuale tra le imprese; un approccio rigoroso della giurisprudenza è positivo, in quanto può contribuire a frenare gli abusi.