La mancata applicazione del contratto collettivo non pregiudica i risparmi contributivi per l’assunzione di apprendisti

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Le imprese artigiane, commerciali e del turismo che non rispettano gli accordi collettivi firmati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, perdono il diritto di ricevere i benefici derivanti da eventuali sgravi contributivi e fiscali percepiti, ma non sono tenute a restituire la minore contribuzione previdenziale pagata in caso di assunzione di apprendisti.

Questa la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione (sentenza n. 6428/2018), con una decisione che, pur essendo riferita alla disciplina dell’apprendistato vigente prima del Jobs Act, è perfettamente sovrapponibile alle norme attualmente vigenti.

La controversia decisa dalla sentenza riguarda il mancato adempimento, da parte di un datore di lavoro, di alcuni obblighi retributivi previsti dal CCNL di settore; per sanzionare questa condotta, l’INPS ha richiesto al datore di lavoro di restituire i contributi previdenziali risparmiati per l’assunzione di alcuni apprendisti.

L’obbligo di restituire i contributi risparmiati, secondo l’INPS, deriverebbe dall’art. 10 della legge Biagi (legge 30/2003), che prevede la revoca degli sgravi e degli incentivi contributivi e normativi a carico dei datori di lavoro che non applicano i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondata la pretesa dell’INPS, sulla base di una differenza strutturale che caratterizzerebbe gli incentivi economici e normativi, intesi in senso stretto, e le aliquote contributive agevolate applicabili agli apprendisti (agevolazione che, ricorda la sentenza, con forme e misure diverse costituisce una consolidata tradizione all’interno del sistema generale della previdenza sociale).

Le aliquote agevolate per l’apprendistato, secondo la Corte, si differenziano dagli ulteriori benefici di natura contributiva, economica, normativa e fiscale che, a prescindere dalla qualifica di apprendista, sono stati di volta in volta introdotti dal legislatore per attuare specifiche finalità di politica economica, volte ad incrementare l’occupazione.

Solo a questi ultimi incentivi, precisa la sentenza, si rivolge l’art. 10 della legge Biagi, nella parte in cui subordina l’applicazione degli incentivi al pagamento di trattamenti retributivi non inferiori a quelli previsti dai CCNL comparativamente più rappresentativi. Non rientrano, invece, nell’ambito della norma le aliquote contributive applicabili agli apprendisti, in quanto sono misure di carattere generale che si applicano a categorie omogenee (tutte le imprese che assumono apprendisti).

Questa lettura depotenzia ulteriormente l’effetto – già circoscritto, nel corso degli anni, da diversi interventi giurisprudenziali e amministrativi – di una norma (l’art. 10 della legge Biagi) che era nata come forma di stimolo indiretto all’estensione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi.

Si tratta di un obiettivo riproposto all’attenzione generale dal recente accordo interconfederale sulle relazioni industriali, che ha messo al centro dell’agenda politico-sindacale la necessità di avviare un’azione di contrasto dei contratti collettivi “pirata”. La sentenza odierna ci ricorda che questa azione di contrasto – indispensabile, per migliorare la qualità del mercato del lavoro e ridurre i fenomeni di dumping illecito – non può prescindere dall’utilizzo di strumenti e soluzioni tecnicamente inattaccabili sul piano giuridico.

Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2018

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