Il distacco transnazionale dei lavoratori è la spina nel fianco delle politiche comunitarie del lavoro, perché genera controversie sia quando si svolge in maniera regolare, sia quando viene utilizzato come strumento per commettere degli abusi.
La fattispecie si verifica quando un’azienda che ha sede in uno Stato membro dell’UE, invia per un motivo valido (un distacco lecito, un appalto realmente esistente, un contratto di somministrazione regolare) un proprio dipendente a lavorare presso un altro Stato Membro.
A questo lavoratore dovranno applicarsi, secondo il d.lgs. n. 136/2016, per tutto il periodo in cui svolge l’attività presso il Paese ospitante, le medesime condizioni di lavoro e di occupazione previste per i lavoratori locali.
Questa regola mira a disincentivare fenomeni di dumping contrattuale, ma il rischio non scongiurato del tutto, perché anche con la parità retributiva resta i lavoratori distaccati posso avere un differente costo contributivi.
Per il calcolo dei costi previdenziali, infatti, vale il c.d. principio di personalità: il datore di lavoro continua a pagare in contributi nel paese di origine fino a un periodo massimo di 24 mesi, pur dovendo applicare le retribuzioni del paese di destinazione (se invece i lavoratori provengono da paesi esterni all’Unione Europea, vale il principio di territorialità, e i lavoratori devono pagare i contributi nel Paese in cui svolgono attività lavorativa, ma possono applicarsi regole diverse sulla base di specifiche convenzioni internazionali).
Per evitare che questa differenza di costo abbia un effetto distorsivo sul mercato, l’Unione Europea intende ridurre da 24 a 12 mesi (estensibili a 18) la durata massima del periodo di applicazione del principio (con un’eccezione per il settore del trasporto, che mantiene le regole vigenti).
Per via della sua convenienza, non è raro che il distacco transnazionale mascheri una condotta illecita: viene costituito un soggetto fittizio presso un paese dove i costi contributivi sono minori, si assume fittiziamente presso tale paese un dipendente che poi viene distaccato in Italia. In questo modo, si applicano costi contributivi ridotti, come se fosse un vero distaccato internazionale, a un lavoratore straniero che si trova già in Italia ed è stato reclutato direttamente dall’impresa locale.
Per contrastare questi abusi, il D.lgs. n. 136/2016 impone ai soggetti che utilizzano il distacco transnazionale diversi adempimenti.
L’impresa che distacca lavoratori in Italia ha l’obbligo di comunicare il distacco al Ministero del lavoro e delle politiche sociali entro la mezzanotte del giorno antecedente l’inizio del distacco e di comunicare tutte le successive modificazioni entro 5 giorni.
La comunicazione preventiva deve contenere alcune informazioni specifiche: i dati identificativi dell’impresa distaccante, il numero e le generalità dei lavoratori distaccati, la data di inizio, di fine e durata del distacco, il luogo di svolgimento della prestazione di servizi, i dati identificativi del soggetto distaccatario, la tipologia dei servizi, e le generalità dei referenti dell’azienda distaccante.
Una volta completato questo adempimento preventivo, l’impresa distaccante deve designare un referente domiciliato in Italia, incaricato di inviare e ricevere atti e documenti (in mancanza, come sede dell’impresa distaccante si considera il luogo dove ha sede legale l’impresa distaccataria) e un altro referente munito di tutti i poteri di rappresentanza necessari per tenere i rapporti con le parti sociali interessate a promuovere la negoziazione collettiva di secondo livello; questo soggetto ha l’obbligo di rendersi disponibile in caso di richiesta motivata delle parti sociali.
Gli obblighi a carico dell’azienda distaccante non finiscono qui: durante tutto il periodo del distacco e fino a due anni dalla sua cessazione, è tenuta a conservare, predisponendone copia in lingua italiana, il contratto di lavoro e ogni altro documento contenente le informazioni sul rapporto di lavoro.