Filippo Chiappi
La sentenza del Tribunale di Roma, 2a Sez. Lav., 15 novembre 2016, n. 8937, in merito alla possibilità del datore di lavoro (anche utilizzatore nella somministrazione di lavoro), di sostituire unilateralmente il CCNL di riferimento, fornisce l’assist per una riflessione ed un richiamo ad alcuni concetti fondamentali.
E’ prassi consolidata quella per cui se ci troviamo di fronte ad un datore di lavoro che è iscritto ad una associazione datoriale, e decide, quindi, di recedere dal contratto collettivo nazionale o dal contratto collettivo territoriale debba seguire dei passi ben precisi:
1) precedere con apposita raccomandata con ricevuta di ritorno alla associazione datoriale alla quale è iscritto, comunicando il recesso dal contratto collettivo e dall’associazione;
2) comunicare il recesso a tutti i firmatari del contratto collettivo;
3) dare comunicazione ai lavoratori;
4) tenere debitamente conto come in ambito sindacale sia ben accetto un recesso dal contratto collettivo non prima che lo stesso abbia terminato la sua validità oramai triennale, pena la possibilità di un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro sfociante anche nella condotta antisindacale;
5) fare salvi i diritti quesiti, cioè i diritti acquisiti ed entrati nella sfera patrimoniale: in primis la retribuzione che non è riducibile ma dovrà essere garantita come sancito dall’articolo 2103 del codice civile, aspetto su cui torneremo più avanti. Ciò significa che se il nuovo contratto collettivo ha la paga base più bassa, il datore di lavoro per il principio di irriducibilità della retribuzione dovrà riconoscere un superminimo, a questo punto, collettivo.
Se ci troviamo di fronte ad un datore di lavoro che non è iscritto ad alcuna associazione datoriale ma che ha applicato liberamente il contratto collettivo attraverso un processo di adesione, ex art 39 della Costituzione:
1) non ci sarà bisogno ovviamente di recedere da nessuna associazione;
2) dovrà comunicare il recesso, a tutti i firmatari del contratto collettivo. Questo perché, il datore di lavoro attraverso una adesione al contratto collettivo si è portato, comunque, a casa, un accordo che qualcuno ha firmato con altri soggetti firmatari. Quindi la comunicazione di recesso deve essere sempre mandata alle parti firmatarie del contratto collettivo;
3) darne comunicazione ai lavoratori;
4) tenere debitamente conto come in ambito sindacale sia ben accetto un recesso dal contratto collettivo non prima che lo stesso abbia terminato la sua validità pena la possibilità di un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro sfociante anche nella condotta antisindacale;
5) fare salvi i diritti quesiti, cioè i diritti acquisiti ed entrati nella sfera patrimoniale: in primis la retribuzione, per quanto detto in precedenza.
E’ opportuna una precisazione in merito ai termini della forma di recesso dal contratto collettivo: non esiste una forma ben precisa. Diciamo, una forma principe attraverso cui comunicare il recesso. La dottrina ha comunque posto in evidenza come l’atto di recesso abbia natura ricettizia e come tale per essere efficace debba essere portato alla conoscenza della parte nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetto. Pertanto, ovviamente, e’ privilegiata la forma scritta di comunicazione.
Se il datore di lavoro, quindi, decide di cambiare il contratto collettivo, dovrà attivare il recesso dello stesso, inviando sempre e comunque una comunicazione alle associazioni sindacali datoriali e dei lavoratori firmatari di quel contratto collettivo e poi a tutti i lavoratori, in merito alla decisione del mutamento. Inoltre, per il datore di lavoro che intende recedere dal contratto collettivo non è necessario indicare la motivazione, nella comunicazione.
Teniamo conto che il mondo Italia vede poche imprese iscritte alle associazioni datoriali. Quindi, la gran parte delle aziende applicano il contratto collettivo di qualsiasi livello secondo un principio di libera e spontanea adesione senza alcun vincolo (di natura giurisprudenziale) derivante dalla iscrizione ad una associazione datoriale. Se tali imprese vogliono cambiare l’applicazione del contratto collettivo, e se non hanno vincoli con le associazioni datoriali perché non sono iscritte, dovranno comunicare ai dipendenti il cambio del contratto collettivo di riferimento, fermo restando che il contratto collettivo di provenienza dovrà essere portato, e rispettato, sino a scadenza della parte normativa – economica. Alla data della scadenza, applicherà il nuovo contratto collettivo. Salvo i diritti quesiti.
Nella libertà sindacale sancita costituzionalmente, il datore di lavoro può scegliere qualsiasi contratto collettivo (ovvero non applicare alcuno contratto collettivo – adesione negativa -) appartenente anche ad una sfera di applicazione merceologica diversa rispetto all’attività svolta dall’impresa. Ovviamente, incontra dei problemi l’impresa che svolgendo, ad esempio, un’attività rientrante nel settore merceologico della metalmeccanica industria, voglia, invece, applicare, (ed è libera di farlo perché non iscritta ad alcuna associazione datoriale) il contratto collettivo dei servizi pulizie industria. Potrà incontrare difficoltà nella gestione del rapporto di lavoro: ad esempio tutta la gestione della turnistica dei processi produttivi con le annesse maggiorazioni retributive che nel contratto collettivo dei servizi pulizia industria, l’imprenditore non troverebbe. Quindi, gioco forza, è opportuno che il datore di lavoro nella sua libertà, aderisca ad un contratto collettivo il più vicino possibile merceologicamente parlando, all’attività svolta, proprio per giungere ad una corretta gestione del rapporto di lavoro anche in termini retributivi. Con questo concetto, nulla a che vedere con l’iscrizione Inps, poiché l’Ente in base all’attività che si svolge, attribuisce un inquadramento previdenziale con annesso piano dei contributi da pagare.
Infine, ricordiamo come il potere ed il concetto di disdire un contratto collettivo nazionale e più in generale un contratto collettivo spetta esclusivamente alle parti sociali stipulanti e non al datore di lavoro che invece per quanto detto in precedenza ha il potere di recedere. La disdetta compete alle organizzazioni sindacali e datoriali che normalmente disciplinano modalità e conseguenze.
Or bene, e posto quanto sopra, la sentenza del Tribunale di Roma del 15 novembre 2016, afferma come l’onere assunto all’atto dell’assunzione di applicare un determinato contratto collettivo non vincola il datore di lavoro per tutta la durata del rapporto ma soltanto fino alla scadenza “triennale” di quel contratto o al suo valido recesso datoriale anche seguito della disdetta delle parti sociali. E’ quanto si desume come massima dalla sentenza di merito che richiama orientamenti di legittimità. Certamente, il datore di lavoro potrà cessare di applicare il contratto ed applicarne unilateralmente uno nuovo, solo nel momento in cui il contratto collettivo sia stato o disdettato dall’associazione datoriale di riferimento ovvero lo stesso sia giunto a scadenza naturale (normativa-economica). Come detto in precedenza, nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta compete unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni datoriali ed alle organizzazioni sindacali dei lavoratori che di norma provvedono anche a disciplinarne le conseguenze. Al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito disdettare e nemmeno recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo la sua eccessiva onerosità in rapporto ad una personale situazione di crisi o difficoltà economica, fattispecie solo possibile nel caso di contratti aziendali. Ma al momento della scadenza del contratto collettivo, afferma la massima del tribunale di Roma, è senz’altro possibile recedere dal contratto collettivo sin lì applicato ed applicare al rapporto di lavoro uno diverso. Ciò perché i contratti collettivi sono espressione e manifestazione dell’autonomia normativa e negoziale dei privati, ed hanno forza di legge tra le parti stipulanti ed operano come tali esclusivamente entro l’ambito temporale di validità concordato tra le parti, senza che possa applicarsi un principio di ultrattività in quanto si porrebbe come limite alla libertà ed all’autonomia sindacale sancita dall’art 39 della Costituzione, in virtù della quale il datore di lavoro è libero di applicare qualsiasi contratto collettivo, ed è libero di recedere da qualsiasi forma di adesione alla normativa collettiva (o per mandato di rappresentanza o per clausola di rimando) alla scadenza naturale od in sede di disdetta. Il Tribunale di Roma, afferma come una volta cessata l’applicazione del contratto collettivo originariamente recepito, resta ferma la necessità di applicare la previsione dell’art 2103 del codice civile, vale a dire la irriducibilità della retribuzione. Posto che, secondo il Tribunale di Roma, le disposizioni dei contratti collettivi operano all’esterno dei contratti individuali come forma eteronoma di regolamento, cosicché nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi (vedi il recesso datoriale dal contratto collettivo) le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore, con il limite dei diritti quesiti, dovendosi per tali intendere quelle situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del dipendente e non anche le situazioni future od in via di consolidamento, e tenendo presente, in tale contesto (del limite peggiorativo – malam partem – ) della tutela offerta dall’art. 36 della Cost. e dall’art 2013 del c.c. in merito alla irriducibilità della retribuzione non tanto con riferimento ai singoli elementi retributivi bensì al trattamento economico globale.
Su tale ultimo aspetto, è plausibile sollevare una certa critica costruttiva che sicuramente comincerà a popolare la aule giudiziarie. L’art 2013 del c.c. a parere di chi scrive ha subito una profonda rivisitazione non solo dal lato dello ius variandi ma anche dal versante della irriducibilità della retribuzione.
L’analisi del nuovo articolo 2013 del codice civile, secondo la dottrina più attenta, presenta una seconda anima rispetto allo ius variandi in sé per sé. Per anni si è discusso se datore di lavoro e lavoratore potevano validamente concordare la riduzione della retribuzione. La vecchia formulazione dell’articolo 2103 del c.c. (“senza alcuna diminuzione della retribuzione “) era inequivocabile per i giudici: negli anni la Cassazione ha finito per ritenere che le dizioni utilizzate dal legislatore della vecchia norma (“ senza alcuna diminuzione della retribuzione; ogni patto contrario è nullo”) ponessero un severo ed invalicabile principio della irriducibilità della retribuzione, con riferimento particolare al combinato disposto tra l’art 36 della Costituzione (retribuzione equa, sufficiente e proporzionata) e l’articolo 2099 del c.c. che attribuiscono alla contrattazione collettiva il metro nello stabilire l’adeguatezza delle retribuzioni. Secondo i giudici, il tutto si traduceva nell’assunto giuslavoristico che nessun accordo di diminuzione della retribuzione avrebbe potuto essere ritenuto valido, sia se pattuito privatamente sia se convenuto nelle sedi protette. Così come il divieto permaneva anche innanzi ad una modifica delle mansioni, anche in chiave peggiorativa ove la giurisprudenza si è spinta fino a ritenere obbligatorio per il datore di lavoro tentare di dequalificare il lavoratore al fine di salvargli il posto di lavoro (repechage) nel caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, riducendo la retribuzione solo per quelle specifiche indennità condizionate a particolari circostanze lavorative.
Il nuovo articolo 2013 del codice civile ha una doppia anima rispetto al tema della retribuzione. E’ presente ancora un principio di irriducibilità della retribuzione: secondo tale assioma il lavoratore può essere adibito a mansioni diverse da quelle inizialmente assegnate, a condizioni che siano riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento ab origine e che tale variazione non comporti alcuna diminuzione della retribuzione. Il principio concerne e blinda quegli elementi della retribuzione corrisposti in modo continuativo, costante mentre non si estende a quelle indennità variabili poiché corrisposte in ragioni di particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e che quindi possono essere soppresse nel momento in cui vengono meno le situazioni specifiche alla mansione oggetto di variazione (“Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”).
Ma la norma novellata introduce un nuovo concetto legale fondamentale: nelle sedi conciliative protette e deputate come tali si possono stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento nonché della retribuzione (“Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione”… ) a condizione che sussista l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
Così facendo il nuovo articolo 2103 del c.c. essendo tutto incentrato sulla ius variandi, sulla facoltà datoriale di modificare unilateralmente le mansioni, consente in alcuni casi accordi anche diminuitivi, introducendo nel nostro ordinamento il germe della riducibilità strutturale della retribuzione e non solo di quella accessoria-variabile ovvero mettendo in dubbio, rispetto al passato, che si possa ancora parlare di un principio inviolabile di irriducibilità della retribuzione.
Fermo restando che potranno essere ancora ritenuti validi accordi di diminuzione di retribuzione per diritti disponibili alle parti, come ad esempio una rivisitazione del superminimo individuale, quindi scollegati da un discorso di mutamento delle mansioni, occorrerà prestare attenzione in futuro ai giudici “sul come” andranno a valutare accordi di diminuzione della remunerazione sia in virtù del sesto comma del nuovo articolo 2013 del c.c. sia in relazione ad altre fattispecie, come nel caso della successione nel tempo di contratti collettivi, al fine di comprendere la dimensione della irriducibilità della retribuzione.