Riccardo Maraga
Come noto nei CCNL spesso le parti firmatarie, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, disciplinano l’esercizio del potere disciplinare da parte del lavoratore.
Oltre a prevedere norme relative alla procedura disciplinare (che di solito riportano al procedimento previsto dall’art. 7, Statuto dei Lavoratori) i CCNL, sovente, elencano una serie di possibili condotte illegittime del lavoratore indicando, per ciascuna, la sanzione disciplinare che il datore di lavoro potrà irrogare al dipendente.
Ci si è chiesti spesso quale valore giuridico abbiano tali clausole e, in particolare, se il Giudice, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, sia vincolato a rispettare le previsioni del CCNL in materia.
Di recente la Cassazione è intervenuta nuovamente sulla questione (Cassazione, sez. lav., 05 maggio 2017, n. 11027).
La Corte ha affermato che la nozione di giusta causa o giustificato motivo è di fonte legale e, dunque, le eventuali difformi previsioni della contrattazione collettiva non vincolano il giudice di merito. Egli – anzi – ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell’art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative.
In sostanza, secondo la Cassazione, se nel CCNL è stato previsto di sanzionare con il licenziamento una condotta che, con riferimento ai principi legali, andrebbe censurata con una sanzione conservativa, il Giudice deve preliminarmente dichiarare nulla tale clausola, essendo contra legem.
Il giudice, prosegue la Cassazione, non può – invece – fare l’inverso, cioè estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., ex aliis, Cass. n. 9223/15; Cass. 17.6.11 n. 13353; Cass. 29.9.95 n. 19053; Cass. 15.2.96 n. 1173), nel senso che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative.
In poche parole, se le parti hanno inteso censurare con sanzioni conservative condotte che, con riferimento ai parametri legali, avrebbero potuto legittimare il licenziamento, il Giudice deve rispettare la volontà delle parti.
Dietro il ragionamento della Corte emerge il principio cardine nel diritto del lavoro, della inderogabilità in pejus della legge da parte della contrattazione (sia individuale e collettiva) il cui naturale corollario è la speculare derogabilità in melius della legge da parte dell’autonomia privata.
Se le parti hanno previsto un trattamento più favorevole per il lavoratore, prevedendo sanzioni conservative per condotte astrattamente sanzionabili con il licenziamento, tale previsione non è superabile dal Giudice.
Se, al contrario, la deroga pattizia alla legge comporta un trattamento peggiorativo per il lavoratore, che è esposto al licenziamento in caso di condotte astrattamente sanzionabili solo con misure conservative, tale clausola è nulla e non vincola la decisione giudiziale.
La sentenza esprime anche un altro importante principio giuridico e, cioè, che, ai fini disciplinari, deve escludersi che i vincoli gerarchici tra le persone si estendano anche al di fuori dell’orario di lavoro e che ad essi debbano essere improntati tutti i rapporti fra loro.
Nella fattispecie sottoposta alla Corte, un dipendente aveva usato un’espressione offensiva nei confronti del superiore gerarchico di fronte alla macchinetta del caffè, al di fuori dell’orario di lavoro e la società aveva ritenuto tale contegno sintomatico di insubordinazione e lo aveva sanzionato con il licenziamento disciplinare.