I controlli a distanza dopo il Jobs Act: gli orientamenti dell’Ispettorato e del Garante Privacy

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Filippo Chiappi

Il Jobs act è intervenuto novellando l’art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Cosa è cambiato rispetto al passato?

La prima parte è rimasta tutto sommato quasi identica. Ci dice semplicemente che il datore di lavoro non può installare impianti audiovisivi ed altre apparecchiature dai quali/dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori e della loro attività, se non ci sono esigenze di carattere organizzativo, produttivo, della sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. Elemento importante, è costituito dall’aggiunta del concetto di “tutela del patrimonio aziendale”, non presente nella precedente impostazione della norma: in sostanza se il datore di lavoro ha l’esigenza di stare tranquillo, di verificare che non ci siano degli accessi non graditi, può istallare dei sistemi di videosorveglianza. Tutti sistemi per così dire classici che possono realizzare anche un controllo indiretto a distanza dei lavoratori. Alle predette esigenze menzionate, si aggiunge la condizione che ci sia un accordo sindacale con le rappresentanze sindacali aziendali. Vi è un elemento ulteriore di semplificazione: se il datore di lavoro ha più unità produttive sparse sul territorio nazionale ossia unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, non deve fare tanti accordi quante sono le province (come avveniva prima) ma farà uno solo  accordo sindacale con le OO.SS nazionale, che avrà valenza per tutte le unità produttive.

 

L’art. 4, nel suo continuo, mantiene la linea della precedente impostazione, per cui in mancanza di accordo sindacale ovvero in assenza delle rappresentanze sindacali, il datore di lavoro deve richiedere l’autorizzazione/accordo di cui sopra, direttamente alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di piu’ Ispettorati territoriali del lavoro, l’autorizzazione va richiesta in modo centralizzato alla Sede Centrale  dell’Ispettorato nazionale del lavoro.

Pertanto, l’installazione delle telecamere in azienda senza accordo sindacale od autorizzazione amministrativa fa scattare sempre la prescrizione degli ispettori e poi la sanzione, persino ad impianti non funzionanti. Così detta un’importante nota del Ministero del Lavoro, n. 11241/2016 ove si sancisce come la violazione venga sanzionata con ammenda da 154 a 1.549 euro o arresto da 15 giorni ad un anno. La nota, prosegue affermando come se l’ispettore rileva in azienda l’installazione di  telecamere in assenza di uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali o dell’autorizzazione rilasciata dall’ITL, deve impartire una prescrizione al fine di porre rimedio all’irregolarità del comportamento datoriale, mediante tempestivo ripristino della legalità, che potrà alternativamente consistere nel raggiungimento di un accordo con le rappresentanze sindacali /autorizzazione amministrativa ovvero nella rimozione degli impianti e delle apparecchiature di controllo a distanza illecitamente installate, entro un termine assegnato. Se in questo lasso di tempo venisse siglato l’accordo sindacale od ottenuta l’autorizzazione amministrativa, l’ispettore può ammettere il datore di lavoro al pagamento della sanzione amministrativa nella misura pari ad un quarto del massimo dell’ammenda. In caso contrario, rimozione e misura piena della sanzione. Altro aspetto importante su cui si sofferma la nota ministeriale è che si pone in violazione dei criteri descritti anche la presenza di telecamere che, seppure installate, non siano ancora state messe in funzione (spente). Così come, sulla base della giurisprudenza, non influisce il fatto che il controllo sia discontinuo perchè esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente. Infine, la nota precisa come rientra nel divieto l’installazione di telecamere finte montate a scopo dissuasivo, poiché questa condotta costitutisce già di per sé un illecito, indipendentemente dall’effettivo utilizzo dell’impianto.

 

Aspetto decisivo di cambiamento, è il comma due dell’articolo quattro, rispetto al quale alcuni della dottrina interpretano come una novità che penalizza i lavoratori, altri invece lo interpretano come un concetto che era già (ri)saputo: solo che adesso il legislatore ha pensato di metterlo per iscritto.

Tale assunto normativo prevede che la disposizione di cui al comma uno, quindi l’obbligo dell’accordo sindacale o della autorizzazione preventiva da parte dell’ispettorato territoriale del lavoro, non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

 

Sugli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze, i famosi badge, nessuno si è mai posto il problema di richiedere preventivamente un accordo sindacale od una autorizzazione alla direzione Territoriale del lavoro. Lo stesso discorso vale per gli altri strumenti di lavoro: si parla fondamentalmente di che cosa? Cellulari, tablet, computer, Tom Tom che si installano nelle macchine ad uso promiscuo.

Sono decenni che questi strumenti esistono, ed in realtà nessuno si è mai posto il problema che per introdurre questi sistemi e strumenti, che consentono tuttavia una forma di controllo a distanza del lavoratore proprio perché attraverso la geocalizzazione il datore di lavoro può sapere dove si trova il dipendente in un certo momento della giornata, fosse necessario l’accordo sindacale o l’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro!

Data questa premessa doverosa ed al fine di evitare equivoci, la norma adesso afferma: non servono autorizzazioni ed accordi sindacali, definendo in modo chiaro ed inconfutabile ciò che già avveniva prima e che abbiamo messo in evidenza. L’obbligo dell’accordo sindacale o della autorizzazione preventiva da parte della direzione territoriale del lavoro ora ITL, non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

 

Ma nel corso dei lavori parlamentari, è proprio qui che è scattato il problema: perché molti hanno affermato che questo nuovo sistema tecnologico di controllo a distanza del lavoratore con la Geocalizzazione, è una palese violazione della norma sulla privacy. Si sono creati due grandi scuole di pensiero: da una parte quella facente capo al professor Ichino, il quale affermava proprio questo: “sono ormai vent’anni che questi strumenti tecnologici anche di geocalizzazione vengono utilizzati nel rapporto di lavoro, adesso si pone il problema insormontabile della violazione della privacy? Se la questione dell’utilizzo di questi strumenti e’ ed era illecito, doveva essere posta la questione già da circa vent’anni, e la cosa non è avvenuta. Se effettivamente la questione era un utilizzo illecito, per introdurre questi nuovi strumenti tecnologici, già in passato qualcuno doveva mettere in evidenza che ci voleva un preciso accordo sindacale od un’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro proprio per scongiurare una violazione della privacy. Evidentemente a nessuno questo problema e questa esigenza sono venute in mente. Non è stata avvertita dal punto di vista normativo, per cui si ritiene che se un datore di lavoro deve dare ai dipendenti un cellulare, un tablet, un tomtom, per poter svolgere la propria attività lavorativa (ad esempio ad un commerciale), strumenti che consentono anche la geocalizzazione del lavoratore da parte datore di lavoro, essendo strumenti di lavoro e se il datore di lavoro si limita al controllo all’attivita’ lavorativa del prestatore attraverso questi strumenti lavorativi consegnati, nulla osta a tutto ciò”.

Durante i lavori parlamentari ovviamente di fronte a questa problematica è intervenuto il garante della privacy dicendo che questi strumenti della nuova tecnologia rappresentano con la geocalizzazione un qualcosa di fortemente invasivo della privacy del lavoratore, perché il datore di lavoro si può inserire nella vita privata del lavoratore, dando quindi alito a chi sosteneva questa tesi che tali nuovi strumenti tecnologici di geocalizzazione sono strumenti invasivi anche della sfera personale del lavoratore.

 

I termini del problema sono questi: il governo, soprattutto nella persona del professor Ichino, affermava come sia stato sempre così e quindi il legislatore ha voluto solamente formalizzare un qualcosa che già avveniva prima:  la richiesta di un accordo sindacale o di una autorizzazione preventiva, non serve per questi nuovi strumenti tecnologici di lavoro che hanno anche la capacità di geocalizzazione.

 

Importantissima è la circolare 2/2016 dell INL. Il Gps montato sull’automobile aziendale di un dipendente di norma non è uno strumento di lavoro. L’Ispettorato nazionale del lavoro prende posizione sull’interpretazione da dare al nuovo articolo 4 dello statuto dei lavoratori per quanto attiene all’installazione di dispositivi di localizzazione satellitare (Gps) sulle autovetture aziendali. Nel farlo, con la sua circolare 2/2016, corregge il parere espresso sul punto dalla direzione interregionale del Lavoro di Milano nel maggio 2016. Quest’ultima aveva ritenuto che l’auto fornita in uso ai dipendenti per eseguire la prestazione lavorativa fosse sicuramente strumento di lavoro, e lo fosse nella sua unicità, comprensiva anche del sistema Gps, pur se installato in un momento successivo alla consegna dell’autovettura.

La conseguenza era che, in quanto rientrante nella categoria “strumenti di lavoro”, il Gps non richiedesse, per la sua installazione, l’accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa, sulla base delle nuove disposizioni introdotte dal Dlgs 151/2015.

L’Ispettorato nazionale del lavoro  è invece di avviso contrario. L’ente ritiene infatti, «in linea di massima, e in termini generali», che i sistemi di geolocalizzazione rappresentino un elemento «aggiunto» agli strumenti di lavoro, utilizzati non per l’esecuzione dell’attività lavorativa ma per rispondere a ulteriori esigenze di carattere assicurativo, organizzativo, produttivo o per garantire la sicurezza del lavoro. Pertanto come tali, data la loro indubbia potenzialità di controllo a distanza dei lavoratori, questi dispositivi possono in via generale essere installati solo previa autorizzazione sindacale o amministrativa. Tuttavia, aggiunge l’Ispettorato, ci possono essere «casi del tutto particolari» in cui i dispositivi Gps possono «trasformarsi» in veri e propri strumenti di lavoro. I casi citati sono due: quando la prestazione lavorativa non può essere resa senza ricorrere al loro utilizzo ovvero quando la loro installazione sia richiesta da specifiche normative legali o regolamentari. L’esempio fornito per il secondo caso è quello dei sistemi Gps per il trasporto di valori superiori a 1,5 milioni di euro.

 

In tale lunghezza d’onda, ricordiamo un intervento importante del Garante per la Privacy n. 303/2016 in base al quale, la posta elettronica, internet e software applicativi sono strumenti di lavoro, o meglio sono strettamente funzionali alla prestazione lavorativa e quindi in base all’art. 4 dello statuto dei lavoratori non hanno bisogno dell’accordo sindacale o dell’autorizzazione amministrativa. Invece non possono essere considerati strumenti di lavoro gli apparati ed i sistemi software che consentono, con modalità non percepibili dall’utente, e in modo del tutto indipendente rispetto alla normale attività, operazioni di monitoraggio, di controllo e di tracciabilità degli accessi ad internet e posta elettronica ovvero cellulari (controllo sugli strumenti di lavoro). Pertanto come tali soggetti ad autorizzazione.  Comuque sia, i dati raccolti mediante i controlli sugli strumenti di lavoro possono essere utilizzati a tutti i fini connessi  al rapporto di lavoro, quindi anche ai fini disciplinari, purchè, come vedremo successivamente, sia data al lavoratore adeguata informazione.

Ma le informazioni provenienti dalla posta elettronica o dal telefono aziendale, come vengono trattate dal datore di lavoro?

Il Garante per la Privacy, interviene con il recente provvedimento n. 547/2016, diffuso il 17 febbraio 2017 con la newsletter istituzionale n. 424, dove afferma come sia vietato estrarre informazioni private dalla email e dal telefono aziendale, in uso al lavoratore. Vietato configurare la copia della posta elettronica per dieci anni; vietato mantenere attive le caselle email dei dipendenti fino a sei mesi dopo la cessazione del rapporto; vietato tenerle attive senza dare agli ex dipendenti la possibilità di consultarle o senza informare i mittenti che le lettere non sarebbero state visionate dai legittimi destinatari ma da altri soggetti; vietato accedere da remoto alle informazioni contenute negli smartphone in dotazione ai dipendenti, copiarle o cancellarle, o cominicarle ai terzi. Sono, quindi, vietati i controlli indiscriminati sulle email e sullo smartphone aziendale. Il datore di lavoro non può avere un accesso indiscriminato alla posta elettronica, e ai dati personali che si trovano negli smartphone del personale e, pur potendo verificare il corretto uso degli strumenti di lavoro, deve rispettare libertà e dignità dei lavoratori. Vietati, dunque, controlli massivi e indiscriminati del lavoratore quali pratiche di controllo che di fatto rappresentano un comportamento illecito. Il Garante ha stabilito che “il datore di lavoro, pur avendo la facoltà di verificare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa ed il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro da parte dei dipendenti, deve in ogni caso salvaguardarne la libertà e la dignità e, in applicazione dei principi di liceità e correttezza dei trattamenti di dati personali, informare in modo chiaro e dettagliato circa le consentite modalità di utilizzo degli strumenti aziendali e l’eventuale effettuazione di controlli anche su base individuale”. Il tutto è legato al fatto che secondo il Garante, il datore di lavoro deve rispettare la dignità dei dipendenti (che verrebbe distrutta dall’estrazione delle informazioni private contenute nelle email o telefono aziendale) ed astenersi da quelle attività idonee a realizzare il controllo massivo, prolungato ed indiscriminato dell’attività del lavoratore. Verifiche indiscriminate sulla posta elettronica e sulla navigazione web del personale sono in contrasto con il Codice della privacy.

Il comma tre dell’articolo quattro è una precisazione nuova è molto importante. Nello specifico viene affermato che tutte le informazioni raccolte sia ai sensi del comma uno, cioè attraverso gli strumenti di videosorveglianza frutto di accordi sindacali o di autorizzazione preventiva da parte della direzione territoriale del lavoro ora ITL, sia raccolte in base al comma due cioè  provenienti dagli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e  dagli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze  per i quali non serve né l’accordo e né l’autorizzazione,  e sia raccolte sulla base degli strumenti nuovi tecnologici di geocalizzazione (rimandando alla precisazione del Garante per la Privacy), il datore di lavoro li può utilizzare a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro.

In pratica si tratta di una serie di informazioni che il datore di lavoro può ottenere ed utilizzare ai fini disciplinari. Se il datore di lavoro attraverso un sistema di videosorveglianza, fotografa il lavoratore che sta svolgendo una attività lavorativa che non è coerente con degli obblighi di tipo contrattuale, oppure attraverso la geocalizzazione, scopre che il lavoratore inviato in missione a Milano si trova durante l’orario di prestazione lavorativa invece a Torino, all’interno di un night club, potrà utilizzare queste informazioni ai fini connessi al rapporto di lavoro e quindi sostanzialmente ai fini disciplinari. In sostanza, il datore di lavoro attraverso queste informazioni può effettuare una contestazione ed arrivare a irrogare sanzioni disciplinari conservative ed espulsive. La norma poi continua nel porre in evidenza due condizioni che comunque consentono al datore di lavoro di raccogliere queste informazioni e di utilizzarli a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro:

 

1) intanto il datore di lavoro deve dare una adeguata informazione al lavoratore: ad esempio al momento della consegna del cellulare aziendale, il lavoratore deve essere avvisato formalmente e per iscritto (meglio) che le informazioni che arriveranno al datore di lavoro mediante i controlli sugli strumenti di lavoro (operazioni di monitoraggio, di controllo e di tracciabilità degli accessi) potranno essere utilizzate ai fini connessi al rapporto di lavoro. Così come bisognerà dare una adeguata informazione sugli strumenti di cui al comma uno, cioè sugli strumenti di videosorveglianza soprattutto sul fatto che i dati raccolti attraverso gli strumenti classici di videosorveglianza potranno essere utilizzati dal datore di lavoro per finalità connesse al rapporto di lavoro;

 

2) le informazioni raccolte ai sensi del comma uno e due, sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizioni non solo che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione di controlli ma soprattutto, (ecco la seconda condizione), siano raccolti ed utilizzati nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003 numero 196: nel rispetto di principi fondamentali della privacy.

In virtù di tali principi, sono illegittime e vietate comunque forme di controllo al di fuori della attività lavorativa, della prestazione lavorativa per esempio fuori l’orario di lavoro, durante il weekend. Non saranno legittime tali informazioni perché incidono sulla dignità e sulla privacy del lavoratore. Però, durante l’attività, durante la prestazione lavorativa, il datore di lavoro potrà far uso delle informazioni e di tutti i dati provenienti dagli strumenti e di impianti audiovisivi, nonché dalle nuove tecnologie di strumenti di lavoro: informazioni che accertino un comportamento, una situazione che non sia coerente e corretta dal punto di vista contrattuale Ne potrà fare uso, ovviamente previo una adeguata informazione preventiva al lavoratore, sull’esistenza e la relativa finalità applicativa. Quindi, con gli strumenti classici e gli strumenti di nuova generazione, il datore di lavoro potrà ottenere delle informazioni da utilizzare per il monitoraggio della sola prestazione lavorativa purché ne abbia dato adeguata informazione al lavoratore circa l’esistenza, e la modalità e le finalità dell’uso e soprattutto nel rispetto della privacy, cioè nel non andare a sindacare su comportamenti e atteggiamenti che sono fuori della prestazione lavorativa e/o che concernano la sfera personale del lavoratore.

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