Alessandro Rota Porta
Le novità previste a favore dei salari incentivanti possono essere sintetizzate in tre aspetti: l’elevazione della misura del reddito da lavoro dipendente richiesta per aver diritto alla detassazione e l’ampliamento della quota detassabile (da 2 a 3mila euro ovvero da 2.500 a 4.000 quando sono presenti sistemi di coinvolgimento paritetico dei lavoratori); ma anche l’introduzione di maggiori vantaggi fiscali, rispetto all’attuale disciplina, qualora la piattaforma dei salari di produttività preveda la possibilità di sostituire – in tutto o in parte – i medesimi con alcune misure di welfare o azioni.
Insomma, il Ddl di bilancio prova a fare uno scatto in avanti per incentivare sempre più la contrattazione di produttività e l’adozione di piani welfare, dopo il già corposo quadro di benefici introdotti dalla legge di stabilità 2016: è questo lo stato dell’arte di un istituto che ha visto la luce nel 2008 e che – contando le modifiche della legge 208/2015 – ha vissuto una quindicina di interventi legislativi.
Nata come misura per sostenere il salario dei dipendenti, la detassazione ha variato il proprio assetto regolamentare diverse volte: la prima fase, quella del 2008, ne consentiva – in via sperimentale – l’applicazione alle remunerazioni legate al lavoro straordinario, a quello supplementare o alle indennità riferite alle clausole elastiche dei rapporti di lavoro part-time ovvero agli emolumenti genericamente collegati ad incrementi di produttività.
Nel 2013 l’impostazione del regime di favore aveva, invece, avuto una svolta: nel solco di un’intesa tra le parti sociali sollecitata dall’allora governo Monti la detassazione poteva trovare applicazione solo in virtù di accordi di secondo livello aventi specifiche finalità. In sintesi veniva richiesto un legame diretto tra gli istituti del Ccnl agevolabili e la produttività aziendale.
Il percorso che poteva portare alla detassazione prevedeva, infatti, due strade: la prima comprendeva le voci retributive pagate per risultati specifici e oggettivi raggiunti in termini di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione; la seconda detassava le somme pagate per attività svolte dal lavoratore e ricollegabili ad almeno 3 di queste 4 aree: flessibilità di orario, calendario delle ferie, utilizzo di nuove tecnologie, fungibilità delle mansioni.
Si era, insomma, passati dall’erogazione “a pioggia” su molteplici elementi retributivi dei Ccnl a meccanismi più aderenti all’andamento delle realtà imprenditoriali.
Anche le somme agevolabili e il reddito di riferimento hanno subito diverse modifiche nel tempo, in alcuni anni trasformando la misura a poco più che un “contentino” e arrivando addirittura al vuoto del 2015, dove non c’era stata applicazione: un tira e molla che non ha fatto altro che disorientare aziende e lavoratori.
Ora sarebbe auspicabile un assetto stabile, grazie alla strutturalità della misura sancita dall’ultima legge di stabilità: in realtà, per completare l’efficacia del percorso, le retribuzioni premiali dovrebbero portare a vantaggi per i datori di lavoro non soltanto in termini indiretti (attraverso la maggiore partecipazione dei lavoratori ai risultati dell’impresa) ma anche in termini diretti sul costo del lavoro, ripristinando i benefici contributivi abrogati lo scorso anno.