Jobs Act, le occasioni perse del decreto correttivo 

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Il decreto legislativo correttivo appena varato dal Governo ha un approccio molto cauto alla riforma del lavoro, scaturita dalla legge delega n. 183/2014 e attuata con gli otto decreti legislativi emanati l’anno successivo, a tutti nota con il nome di Jobs Act.Il provvedimento appena varato dal Governo, infatti, apporta alle norme già esistente delle modifiche tutto sommato marginali, che devono essere studiate e approfondite ma che non stravolgono in maniera significativa gli istituti e le innovazioni già introdotte.

Questo approccio cauto si spiega, probabilmente, con la volontà di non alterare l’architettura complessiva di una riforma ancora tutta da sperimentante, ed è coerente con la natura stessa del decreto “correttivo”, per sua natura destinato ad occuparsi solo di errori, imprecisioni ed aggiustamenti specifici.

E’ un approccio, peraltro, coerente con quanto già fatto in passato (si pensi ad analoghi decreti correttivi approvati per sistemare alcuni passaggi della legge Biagi).

Rispetto ad alcuni temi, tuttavia, il decreto sarebbe potuto intervenire in maniera più incisiva, correggendo non solo i problemi formali, ma intervenendo anche su quegli aspetti che, già durante il primo periodo di applicazione, hanno manifestato dei problemi di funzionamento.

Si pensi al decreto n. 151/2015, ottimisticamente intitolato alle semplificazioni: su questo campo la riforma del lavoro è stata particolarmente timida, in quanto ha semplificato poco e male (con norme, paradossalmente, troppo complesse) il quadro esistente, e addirittura in alcuni casi ha complicato quello che prima era semplice.

E’ quanto accaduto con la normativa sulle dimissioni telematiche, che ha finito per irrigidire un sistema che era già bilanciato ed offriva già tutele adeguate contro l’odioso fenomeno delle dimissioni in bianco (gestibili agilmente con la facoltà di revoca). Quello che era un passaggio semplice della vita aziendale è diventato un percorso ad ostacoli, caratterizzato da troppi adempimenti poco funzionali alle esigenze di reale tutela dei lavoratori; il decreto correttivo non fa alcuna marcia indietro su questo aspetto, limitandosi ad ampliare la platea dei soggetti che possono assistere il lavoratore per applicare la procedura. Troppo poco, se si vuole davvero perseguire la strada della semplificazione.

Maggiore coraggio si sarebbe potuto spendere anche in materia di apprendistato, che anche nel d.lgs. 81/2015 ha scontato l’ormai tradizionale eccesso di regole, fonti e procedure, che impedisce un vero decollo del contratto; forse un decreto correttivo non era la sede adatta, ma il contratto avrebbe bisogno di un ripensamento strutturale e, anche senza questo, di una moratoria normativa (si è perso il conto dei cambiamenti).

Si è persa anche l’occasione di sistemare alcune sfasature contenute nel medesimo decreto in materia di contratto a termine e somministrazione di lavoro.

Il decreto correttivo chiude, come accennato, la lunga fase di scrittura delle regole scaturenti dalla legge delega del 2014; è bene ricordare cosa prevedono gli otto decreti legislativi approvati sulla base di questa legge, in quanto tali norme hanno cambiato in misura importante l’assetto del mercato del lavoro italiano.

Uno dei primi decreti attuativi, entrato in vigore il 7 marzo del 2015, ha riformato la disciplina dei licenziamenti, introducendo per nuovi assunti, al posto del tradizionale art. 18 dello statuto dei lavoratori, il regime delle c.d. “tutele crescenti” (d.lgs. n. 23/2015).

Lo stesso giorno è stato approvato il decreto che ha ridisegnato il trattamento di disoccupazione (che ha anche cambiato nome, da ASPI a NASPI), che ha acquisito una durata (ma anche un valore economico) flessibile, direttamente proporzionale ai periodi di lavoro svolti prima del licenziamento.

Sempre il 7 marzo è entrato in vigore il decreto di riforma dei congedi parentali, pensato per rafforzare la tutela della genitorialità sui luoghi di lavoro.

Nel mese di giugno, è stato introdotto il c.d. codice dei contratti, un testo unico che ha riorganizzato le norme sui contratti di lavoro flessibile (d.lgs. n. 81/2015); nel corpo dello stesso provvedimento hanno trovato posto la riforma delle mansioni e il superamento del lavoro a progetto, ritornato alle origini (è rinata la vecchia co.co.co.) ma con requisiti più rigorosi.

Infine, nel mese di settembre del 2015, sono entrati in vigore ben 4 provvedimenti: la riforma degli ammortizzatori sociali erogati in costanza di rapporto (d.lgs. 148/2015), la riorganizzazione dei servizi ispettivi e la costituzione dell’ispettorato nazionale del lavoro (d.lgs. 149/2015), la riforma delle politiche attive del lavoro (d.lgs. n. 150/2015), e il decreto “semplificazioni”, sopra ricordato, che tra le varie norme ha modificato la disciplina dei controlli a distanza e ha introdotto la procedura di convalida telematica delle dimissioni (d.lgs. n. 151/2015).

La riforma adesso è completa: è necessario che ora tutti gli attori del sistema si impegnino per applicarla in maniera coerente con lo spirito e le finalità definite dal legislatore, in modo da far funzionare fino in fondo la nuova architettura disegnata dai provvedimenti appena ricordati.

Il Governo e i suoi organi strumentali (a partire dalla neonata ANPAL, ancora imbrigliata in troppi vincoli procedurali) devono mettere in campo politiche del lavoro capace di tradurre le nuove regole in azioni concrete; gli operatori del mercato devono rapidamente apprendere e tradurre in pratica le riforme; i giudici devono svolgere la propria azione di interpretazione delle leggi, cercando di non tradire la volontà del legislatore; gli organi e i soggetti, anche indipendenti, chiamati a studiare l’impatto sul mercato del lavoro delle nuove misure devono, in maniera rigorosa e onesta, dare conto degli effetti occupazionali delle nuove regole, senza farsi distrarre da visioni preconcette.

 

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