Legittima la normativa “acausale” sul lavoro a termine

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Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione fissano linee guida certe per l’interpretazione delle norme speciali vigenti dal 2005 nel settore postale per l’utilizzo dei contratti a termine.

La sentenza n. 11374/2016 (depositata ieri) definisce, infatti, la corretta interpretazione dell’art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368/2001 (la normativa che, sino alla riforma contenuta nel dl 34/2014 e confermata dal d.lgs. n. 81/2015, regolava i contratti a termine nel settore postale) e conferma la compatibilità complessiva del sistema di limiti previsto dalla legislazione nazionale rispetto alle regole comunitarie.

L’interpretazione uniforme di queste norme, si legge nella sentenza, si rende necessaria non tanto per risolvere rilevanti contrasti interpretativi (come avviene nella maggioranza dei casi) ma, piuttosto, per “scongiurare l’eventuale formarsi di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità” in una materia che è già interessata da un contenzioso cospicuo.

Le Sezioni Unite intervengono, quindi, per prevenire, prima ancora che nascano, eventuali letture differenti tra le singole sezioni della Cassazione e, in tal modo, scongiurare la  nascita di filoni di contenzioso basati su tali letture.

Il primo tema che affronta la sentenza riguarda l’interpretazione dell’art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368/2001, nella parte in cui esonera le imprese operanti in alcuni settori dall’obbligo di indicare la causale nel rapporto a termine, ponendo a carico di tali imprese alcuni oneri procedurali e alcuni limiti quantitativi.

Le Sezioni Unite ricordano che tale norma non ha introdotto un requisito aggiuntivo rispetto alla regola generale che imponeva l’indicazione causale (come spesso viene invocato in giudizio da ex lavoratori) ma, piuttosto, ha definito un regime di maggior favore per i datori di lavoro rientranti nei settori individuati dalla legge, in termini di eccezione rispetto alla normativa generale; questo vuol dire, prosegue la sentenza, che i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione della norma non devono indicare le ragioni organizzative, produttive, tecniche o sostitutive sottese all’apposizione del termine al contratto, in presenza di alcune delimitazioni temporali e quantitative.

La sentenza esamina anche la compatibilità dei limiti posti alla successione di rapporti a termine dalla legislazione italiana (in particolare, quella vigente prima del Jobs Act) rispetto ai principi fissati dalla normativa comunitaria (direttiva n. 70/1999).

Secondo la legislazione vigente prima del DL n. 34/2014, se un contratto a termine viene stipulato senza soluzione di continuità con quello precedente, si converte a tempo indeterminato; il datore di lavoro deve, inoltre, attendere un periodo minimo di tempo tra un contratto e l’altro (10 giorni, se il rapporto iniziale ha avuto una durata inferiore a 6 mesi, 20 giorni per una durata superiore).

Il rispetto dell’intervallo non è l’unico limite previsto dalla legislazione per contenere gli abusi; esiste anche il tetto massimo di 36 mesi (a suo tempo fissato dalla legge n. 247/2007), che va calcolato come sommatoria dei periodi di lavoro intercorsi a tempo determinato, a prescindere dall’intervallo che c’è stato tra l’uno e l’altro.

Questa normativa, rileva la Corte, è pienamente conforme al diritto comunitario, in quanto contiene in maniera adeguata e completa ogni possibile eventuali ricorso abusivo alla successione di rapporti a termine.

Tale interpretazione riguarda solo le norme del d.lgs. n. 368/2001, mentre non attiene alle regole contenute nel d.lgs. n. 81/2015 che, in attuazione del Jobs Act, hanno sistematizzato la disciplina del lavoro a tempo determinato; tuttavia, il contenuto sostanziale delle nuove disposizioni è rimasto in larga misura inalterato, e quindi anche per i rapporti più recenti la pronuncia orienterà l’interpretazione giurisprudenziale.

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