Chi matura la pensione non può restare al lavoro fino a 70 anni. La Cassazione “smonta” un pezzo della riforma Fornero

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La legge Fornero di riforma delle pensioni non attribuisce al lavoratore il diritto di rimanere al lavoro fino a 70 anni, dopo aver raggiunto i riequisiti per la pensione di vecchiaia. Semplicemente, l’articolo 24, comma 4 del decreto legge 201/2011 prevede la possibilità di conteggiare i periodi di lavoro svolto dopo la maturazione dei requisiti pensionistici utilizzando per i coefficienti di trasformazione i contributi accumulati in aggiunta; pertanto, la permanenza al lavoro non costituisce un «diritto potestativo» del lavoratore ma può solo essere frutto di un accordo tra le parti, quindi tra il dipendente e l’azienda.
Questa interpretazione – molto dirompente / del comma 4 dell’articolo 24 del decreto legge 201/2011 è contenuta nella sentenza 17589/2015 delle Sezioni unite.
La sentenza passa in rassegna l’articolo 24 del Dl 201, che stabilisce due corsie per garantire l’equilibrio del sistema previdenziale. Per il sistema pubblico (Ago e gestioni autonome) si è generalizzato il sistema contributivo pro rata e si sono innalzati i requisiti per la pensione; per il segmento privato si è stabilito che gli enti debbono garantire l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni secondo bilanci tecnici con una proiezione di 50 anni. La prosecuzione dell’attività lavorativa fino a 70 anni è prevista nella parte del provvedimento riferita al sistema pubblico.
La Sezioni unite si dedicano alla questione – che ha dato luogo a rilevanti contrasti giurisprudenziali – circa la natura dell’incentivo a proseguire l’attività lavorativa, «fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza». Incentivo che consiste nella valorizzazione, attraverso i coefficienti di trasformazione, dei contributi per il lavoro oltre l’età della vecchiaia, fino a 70 anni. L’espressione “limiti ordinamentali” fa riferimento, secondo la corte, alle disposizioni legislative che regolano specifici comparti (per esempio, la disciplina del pubblico impiego). La disposizione, per le Sezioni unite, non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto, ma prevede che per quanti lavorano oltre l’età della vecchiaia – per un accordo tra dipendente e datore di lavoro – ci siano le condizioni per la prosecuzione del rapporto. Pertanto, conclude la corte, il fatto che la legge prevede l’applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori in favore di chi permane al lavoro fino a 70 non significa che chiunque ha questo diritto; al contrario, la norma va intesa nel senso che, per chi raggiunge l’accordo con il datore di lavoro per la prosecuzione del lavoro, permane la tutela contro i licenziamenti ingiustificati. In questo modo viene rovesciata l’interpretazione comune che, in questi anni, era stata data alla norma in questione.
La sentenza – scaturita da un contenzioso avviato dal licenziamento di un giornalista –
si pronuncia anche sulla natura dell’Inpgi, confermando la natura privata dell’istituto di previdenza dei giornalisti, essendo ricompreso nell’elenco degli enti privatizzati con il decreto legislativo 509/1994, anche se l’istituto «ha sempre gestito e continua a gestire una forma sostitutiva dell’Ago», l’assicurazione generale obbligatoria coperta dall’Inps.
Per le Sezioni unite della Corte di cassazione, i giornalisti, obbligatoriamente iscritti all’Inpgi per la tutela previdenziale, non sono ricompresi tra i lavoratori destinatari della posssibilità (rimessa, come visto, a un accordo tra le parti) di continuare a lavorare fino a 70 anni. Questa chance è prevista solo per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria Inps e alle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché a quanti fanno capo alla gestione separata.

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