Il cavallo non beve.
Potremmo riadattare il vecchio motto usato dagli economisti per commentare i risultati degli investimenti operati in questi anni per riconoscere, a vario titolo, incentivi finalizzati alla creazione di nuovo lavoro.
Tutte le misure progettate per stimolare nuove assunzioni non hanno creato un vero stimolo al mercato del lavoro, ma si sono risolte in un rimborso, spesso posticipato nel tempo rispetto al momento dell’assunzione, in favore di imprese e datori di lavoro che avevano già deciso di assumere personale.
La situazione è ancora più deficitaria se si analizzano le misure per ricollocare chi ha perso il lavoro e i tentativi di collegare la fruizione degli incentivi all’effettiva partecipazione del lavoratore ad apposite misure di politica attiva.
Le ragioni di questo insuccesso sono tante. Il primo motivo per cui, in questi anni, gli incentivi per l’occupazione non hanno avuto la risposta attesa, è concettuale: come ripeteva spesso Marco Biagi, nessun incentivo economico può bilanciare un disincentivo normativo, e quindi bisogna rimuovere innanzitutto questi ultimi, per favorire la creazione di lavoro. E nel nostro diritto del lavoro, di disincentivi normativi ce ne sono moltissimi.
Un reticolo disordinato, caotico e in continua evoluzione di norme, contratti collettivi, circolari, decreti ministeriali, leggi regionali e prassi amministrative coopera ogni giorno verso l’unico obiettivo di creare procedure, spesso insensate, da rispettare, a costo di pesanti sanzioni.
E’ illusorio pensare che bastino poche migliaia di euro per rimuovere la ritrosia e la diffidenza verso il lavoro che genera una situazione come questa.
Questa vera e propria emergenza normativa sembra essere stata compresa dal JobsAct, nella parte in cui viene prevista l’emanazione di un Testo unico semplificato del lavoro e, più in generale, la riduzione del carico di procedure che accompagnano il lavoro.
Tuttavia, è ancora presto per cantare vittoria, considerato che nella storia legislativa degli ultimi anni sono state varante tante presunte semplificazioni che, di fatto, si sono risolte nella mera sostituzione di regole complesse con regole altrettanto complesse, senza alcun reale vantaggio in termini di riduzione del carico procedurale e burocratico.
C’è poi un altro problema, più specifico, che attiene gli incentivi per l’occupazione delle persone prive di lavoro (o in procinto di perderlo) e al rapporto tra politiche attive e politiche passive del lavoro. Nella stragrande maggioranza dei paesi europei, chi ha perso o sta per perdere il lavoro e, per questo motivo, percepisce un ammortizzatore sociale pubblico, si rivolge a un centro per l’impiego, dove lo stesso ufficio eroga il trattamento economico e, contestualmente, definisce le “misure” per ricollocarsi.
Nel nostro sistema, le politiche passive sono in mano a un soggetto esteso e gestito a livello nazionale (l’Inps), le politiche passive sono regolate dalle Regioni, e sono gestite materialmente dalle Province (almeno fino a quando resteranno in vita).
E’ un meccanismo che già nasce come scoordinato e, quindi, destinato all’insuccesso.
Anche su questo aspetto il JobsAct si ripromette di intervenire, ma il rischio che l’incertezza, invece di diminuire, aumenti, è concreto, a causa di un quadro istituzionale in fase di cambiamento.
La legge delega ipotizza una nuova centralizzazione dei compiti, anche gestionali, in tema di politiche attive, mediante la costituzione di un’agenza nazionale per l’occupazione. Questa misura sarebbe pienamente giustificata dagli insuccessi delle Regioni di questi anni (non tutte, a onor del vero, ci sono state anche realtà di assoluta eccellenza) ma sarebbe difficilmente coerente con una norma costituzionale, l’art. 117, che probabilmente cambierà, ma solo tra uno o due anni.