La sentenza n. 18353/14 con cui le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto lo storico contrasto interpretativo sulla rinuncia alla reintegrazione sul posto di lavoro, è destinata ad incidere molto sia sul contenzioso pendente, sia su quello futuro.
Quando un lavoratore che è stato licenziato vede riconosciuto il suo diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro, può scegliere di rinunciare a riprendere servizio e percepire, in alternativa, un’indennità pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto (in aggiunta al risarcimento del danno spettante per il periodo pregresso).
Il dubbio risolto dalle Sezioni Unite riguarda l’individuazione del momento nel quale deve considerarsi interrotto il rapporto. La sentenza sostiene che l’effetto risolutivo si verifica sin dal momento in cui il datore di lavoro riceve la dichiarazione di rinuncia del lavoratore; nel periodo che passa tra l’opzione e il pagamento effettivo, il ritardato adempimento viene regolato dalle norme sui crediti pecuniari del lavoratore (interessi legali e rivalutazione monetaria).
Considerata la particolare efficacia delle pronunce delle Sezioni Unite – che hanno lo scopo specifico di comporre i contrasti giurisprudenziali – in tutte le controversie ancora pendenti, i giudici – di merito e di legittimitá – dovrebbero dare coerente applicazione al principio appena affermato.
L’effetto di questa applicazione potrebbe non essere indolore: la giurisprudenza di merito in questi anni ha spesso preferito l’opzione secondo cui il rapporto si estingue solo col pagamento delle 15 mensilità, e nel frattempo decorrono le retribuzioni, e quindi molti lavoratori hanno ottenuto pronunce che riconoscono somme più alte di quelle effettivamente spettanti secondo il criterio affermato dalle Sezioni Unite. Nei gradi di impugnazione successivi, tali sentenze dovranno quindi essere riviste, e molti lavoratori potrebbero essere chiamati a restituire delle somme. Le uniche decisioni che non subiranno questo effetto sono quelle già passate in giudicato: per queste, essendo ormai esaurito ogni possibile strumento di impugnazione, non ci sarà alcun impatto. La sentenza delle Sezioni Unite riguarda la formulazione dell’articolo 18 vigente prima che la norma fosse riformata, con la legge n. 92/2012. Con l’entrata in vigore della nuova disposizione, in teoria il problema non dovrebbe porsi: la riforma, infatti, ha chiarito (in coerenza con la lettura oggi accolta dalla Cassazione) che il rapporto si risolve al momento dell’opzione del lavoratore. In realtà, anche per la nuova disciplina la decisione delle Sezioni Unite può avere un impatto notevole, perchè previene letture – già emerse, seppure in forma ancora embrionale, dopo la riforma – tese ad affermare che, pur essendo risolto il rapporto, al lavoratore spetterebbe comunque un risarcimento pari a tutte le retribuzioni teoricamente maturate fino al saldo effettivo delle 15 mensilità. Su questo aspetto le Sezioni Unite sono chiare: dal momento dell’opzione, visto il rapporto si risolve, al lavoratore spettano solo gli interessi e la rivalutazione monetaria. Un risarcimento del danno ci può essere, ma solo se viene provato in maniera specifica dal dipendente, senza alcun automatismo. In conclusione, lo scenario che si prospetta è quello di una maggiore chiarezza ed uniformità applicativa. Tuttavia, considerato che nel corso di questa lunga vicenda è stata disattesa persino una sentenza della Corte Costituzionale, è ancora presto per dire se questa previsione sarà confermata dai fatti.
Giampiero Falasca Il Sole 24 Ore 30 agosto 2014