Limiti quantitativi del lavoro a termine, percorso a due vie

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La riforma del contratto a termine si basa su uno scambio finalizzato a dare maggiori certezze applicative ai datori di lavoro: viene cancellato l’obbligo di indicare la causale e viene introdotto il divieto (prima meramente eventuale) di stipulare un numero di rapporti a tempo determinato superiore a una certa soglia quantitativa.

Questa soglia si applica in maniera differente in funzione dell’esistenza di un contratto collettivo che disciplina tali limiti quantitativi. Se questa disciplina collettiva non esiste (come accade per il settore bancario e quello metalmeccanico), si applica la regola introdotta dal decreto Poletti, che vieta di stipulare contratti a termine per un numero superiore al 20% di quelli presenti in organico (con un periodo transitorio fino al 31 dicembre 2014). Se invece esiste un contratto collettivo che individua i limiti quantitativi, le aziende che lo applicano devono “dimenticare” la soglia del 20%, rispettando solo la normativa collettiva. I contratti collettivi oggi vigenti contengono regole molto diverse da un settore all’altro, non solo dal punto di vista del numero massimo, ma anche da quello della tecnica di calcolo utilizzata per raggiungere la soglia.

Per quanto riguardo il commercio, il lavoro a termine è utilizzabile entro il limite del 20% del personale assunto a tempo indeterminato, mentre per la somministrazione di manodopera è prevista una soglia del 15 per cento. Se c’è utilizzo contemporaneo dei due contratti, fermo restando l’obbligo di non superare le soglie appena ricordate, si prevede un tetto massimo comulativo del 28 per cento. Regole particolari disciplinano il tetto per le imprese fino a 15 dipendenti (ammesse fino a 4 unità). Il contratto collettivo consente, inoltre, di derogare al limite del 20% per i contratti stipulati per la fase di avvio di nuove attività e per la sostituzione di lavoratori assenti (si ribadisce un principio legislativo).

Molto innovativa la disciplina per il settore del turismo, grazie al fatto che le parti sociali hanno rapidamente attuato la riforma con l’intesa del 16 giugno scorso. Secondo tale normativa,  il limite legale del 20% si applica solo oltre i 50 dipendenti a tempo indeterminato, mentre per le imprese di dimensioni inferiori sono previsti scaglioni che vanno dai 4 (per chi ha almeno 4 dipendenti) a 12 rapporti (per chi ha tra 36 e 50 dipendenti). Inoltre, il numero di contratti a termine definito per ciascuna fascia occupazionale è riferito al numero dei lavoratori che può essere impiegato contemporaneamente con contratto a tempo determinato in ciascuna unità produttiva.

L’accordo modifica anche la data di riferimento nel calcolo della base occupazionale. Viene, infatti, stabilito che la base di computo per la determinazione del numero di contratti a termine è costituita dai lavoratori a tempo indeterminato e con contratto di apprendistato iscritti nel libro unico del lavoro all’atto dell’attivazione dei singoli rapporti di lavoro a termine, con l’ulteriore precisazione che «le frazioni di unità si computano per intero». L’accordo, infine, conferma il regime dei contratti esclusi dal tetto massimo ai sensi dell’art. 10, comma 7 del d.lgs. 368/2001.

Per  l’industria chimica si prevedono soglie numeriche (18%)  collegate a situazioni specifiche. In tale ipotesi, si può pensare che esista un doppio regime: per le parti regolate dal Ccnl, si applica la soglia numerica collettiva, mentre per i contratti acausali, in mancanza di una disciplina contrattuale, vale il tetto del 20 per cento. Da notare che il Ccnl dei chimici utilizza il concetto di valore medio dei rapporti a termine, molto più favorevole rispetto a quanto prevedono altri accordi o la normativa nazionale, che fanno riferimento al numero complessivo di rapporti stipulabili.

Nel complesso, l’analisi delle norme collettive vigenti fa emergere la necessità di adeguare molte delle clausole esistenti al nuovo regime di acausalità (sono ancora troppe le soglie riferite a esigenze specifiche) e anche l’esigenza di definire con precisione se il criterio di computo fa riferimento al numero effettivo dei contratti oppure alla media degli stessi.

Da Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2014, G. Falasca

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