Limiti quantitativi del lavoro a termine e della somministrazione: purchè il diavolo non si nasconda nei dettagli

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Mauro Soldera

Inevitabile prevedere che un passaggio tanto importante quanto il superamento della causale di utilizzo nel contratto a termine e nella somministrazione a termine avrebbe comportato una fase di dubbi ed incertezze.

La scelta è sicuramente da sostenere per quanto mi riguarda, la tecnica legislativa probabilmente migliorabile, come da più parti evidenziato.

Dopo aver letto i primi scritti sulle novità portate al contratto a termine dal (convertito) Decreto Poletti, ascoltato autorevoli interventi, cerco di mettere in fila le questioni su cui le posizioni non sono univoche, senza pretesa di fornire un elenco esaustivo – come si dice in questi casi.

Avverto subito, non ho lo scopo – o l’ambizione, sicuramente non la funzione – di fornire la risposta finale; vorrei giungere piuttosto ad un’altra conclusione che non svelo ora.

Partiamo dal nuovo limite quantitativo di legge al contratto a termine: 20% del “numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione”.

Questione numero 1: come si determina l’organico che costituisce la base di computo del 20%? Ad esempio: i dirigenti e gli apprendisti si calcolano? E come si calcolano gli assunti a tempo indeterminato con lavoro intermittente o part time?

Seconda questione – piuttosto importante -: visto che la norma dice “il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro (…) non può eccedere il limite del 20% dei…”, significa che nell’arco dell’anno di riferimento il datore di lavoro non potrà stipulare (i.e. iniziare) contratti in numero superiore a tale percentuale, indipendentemente da quanti contratti siano contemporaneamente vigenti? Il recente scritto dell’avv. Falasca pubblicato su Lavoro & Impresa non è stato l’unico intervento ad aver palesato il dubbio. Le due interpretazioni portano a risultati notevolmente diversi!

Le norme che regolano il periodo transitorio generano da sole un’altra serie di domande. In particolare, queste norme fanno salvi “in sede di prima applicazione” i contratti collettivi nazionali che già prevedevano limiti quantitativi per il contratto a termine:

– cosa significa “in sede di prima applicazione”? Si riferisce al 31.12.2014, data entro la quale chi aveva percentuali superiori al limite di legge prima della sua entrata in vigore ha tempo di mettersi in regola, oppure alla naturale scadenza prevista dal CCNL di riferimento?

– come vanno considerate le clausole dei CCNL che stabiliscono limiti percentuali in ragione di particolari causali di utilizzo, ora che il regime causale è definitivamente superato?

– e nel caso il limite di utilizzo già previsto dalla norma contrattuale consideri congiuntamente contratto a termine e somministrazione di lavoro, considerato che per quest’ultima il limite legale del 20% non si applica?

– i contratti stipulati prima dell’entrata in vigore del decreto legge (non della legge di conversione) non sono soggetti al nuovo limite quantitativo, ma una volta giunti a naturale scadenza sarà possibile prorogarli se in tal modo si sfora il limite? Sarà possibile sia durante che dopo la fine del periodo transitorio (31.12.2014)?

– i contratti collettivi applicabili in azienda potranno consentire un termine di adeguamento più agevole rispetto alla scadenza del 31.12.2014 ed al limite del 20%: ma quali sono i margini entro cui la deroga contrattuale potrà muoversi per essere considerata legittima? Un contratto aziendale che estenda il termine del periodo transitorio al… 31.12.2074 può considerarsi legittimo?

Ancora. Le nuove norme legano una sanzione amministrativa al superamento del nuovo limite quantitativo legale; pare piuttosto pacifico che tale sanzione si cumuli alle pretese soggettive azionabili da parte del lavoratore (conversione e risarcimento del danno). Ci si potrebbe tuttavia porre un’altra questione: nel caso il contratto collettivo di riferimento – tuttora legittimato ad intervenire – stabilisca un limite inferiore al 20% di legge, la sanzione amministrativa troverà applicazione rispetto al superamento del limite pattizio inferiore o solo al superamento del limite legale?

Due ultime questioni sul nuovo regime delle proroghe (giusto per non esagerare):

– visto che la previsione “nell’arco di complessivi 36 mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi” dovrebbe di buon grado intendersi riferita ai 36 mesi come limite massimo di durata nella successione di più contratti a termine (dato il riferimento ai rinnovi) e non ai 36 mesi come limite di durata del singolo contratto, come ci si deve comportare nel caso il CCNL di riferimento estenda il limite complessivo (più contratti) dai 36 ai… 54 mesi? Occorrerà comunque tenere a riferimento il limite di 5 proroghe in 36 mesi?

– la prorogabilità del contratto a termine è condizionato al fatto che le proroghe “si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato”: per tale via è necessario considerare escluso ogni jus variandi nel contratto a termine, a meno di non escluderne la prorogabilità?

Fermiamoci qui, tiriamo le fila e cerchiamo qualche conclusione costruttiva.

Sulle novità del Decreto Poletti attendiamo a breve un documento interpretativo da parte del Ministero del Lavoro: probabilmente molte delle questioni menzionate troveranno considerazione. Non dimentichiamo però che un documento del genere non potrà vincolare i giudici; potrà semmai avere capacità di indirizzo per gli ispettori chiamati a valutare l’applicazione della nuova sanzione amministrativa in caso di sforamento dei limiti.

Ma fuori dagli aspetti amministrativi c’è un altro strumento in grado di dirimere buona parte dei dubbi evidenziati, togliendo per tempo il pallino dalle mani dei giudici ed evitando così di dover ripercorrere la nefasta esperienza della causale, in cui ci trovammo a scoprire a posteriori ed a forza di condanne in giudizio quale fosse la soluzione giusta.

Sto parlando della contrattazione collettiva, a cui le norme (nuove o confermate) danno ampio spazio di intervento; in particolare sui limiti quantitativi ma non solo; tanto rispetto al periodo transitorio quanto a regime.

In questa prospettiva è essenziale aver ben presente i rischi portati dalle nuove norme, verificare in quali casi sia possibile intervenire in sede contrattuale, quale sia la sede corretta – senza dimenticare le possibilità concesse dall’art. 8 L. 148/2011 -, trovare la migliore soluzione in ambito negoziale, declinarla nella maniera più chiara possibile. Interventi di pura interpretazione, senza intaccare l’equilibrio dello scambio negoziale, già potrebbero portare benefici di sicurezza.

L’alternativa, a regime esistente, è che il senso generale di un auspicato intervento di semplificazione rischi di cadere su dettagli diabolici.

 

 

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