La pagliuzza e la trave: come si può criticare il JobsAct dimenticando il disastro della causale?

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Il nuovo sistema di controllo del lavoro a termine – diretto, o in regime di somministrazione – basato esclusivamente su criteri di carattere oggettivo (quantità e durata) rischia di essere investito da dubbi interpretativi eccessivi e poco giustificati. L’analisi della riforma non può essere fatta dimenticando da dove veniamo. Il sistema precedente, costruito dal d.lgs. n. 368 del 2001 e dal d.lgs. n. 276 del 2003, ha fallito completamente, per la sua incapacità di dare regole certe e stabili. La causale ha agevolato la diffusione di un contenzioso formalistico, senza garantire alcun filtro contro gli abusi. Se si dimentica questo aspetto, si rischia di avere un approccio eccessivamente severo verso le regole appena introdotte. Queste norme, infatti, hanno un pregio insuperabile: si basano elementi oggettivi, i numeri. Un giudice non potrà più valutare – per colpa di una legislazione troppo vaga – lo stesso contratto in maniera diversa dal collega della stanza accanto, perché i numeri 20 e 36 (le “soglie” quantitative e di durata) avranno sempre lo stesso valore.

Questo cambiamento produrrà un potente effetto di semplificazione, che non può essere sottovalutato quando si analizza la riforma. Certo, come spesso accade nella nostra legislazione (soprattutto in quella dell’ultimo decennio, piena di imprecisioni tecniche), resta aperto qualche dubbio applicativo, ma si tratta di aspetti marginali o infondati. Poco fondato, in particolare, sembra il dubbio circa l’applicabilità nei confronti dei dipendenti assunti dalle Agenzie per il lavoro del tetto massimo del 20%. Le norme della riforma Biagi consentono l’applicabilità del d.lgs. 368 del 2001 ai rapporti di lavoro intrattenuti dalle Agenzie solo “in quanto compatibile”. Se c’è un aspetto incompatibile con le assunzioni finalizzate ad eseguire i contratti di somministrazione a tempo determinato, è proprio la regola del 20%, perché le Agenzie per il lavoro devono e possono – a normativa vigente – fare un uso strutturale e generalizzato del lavoro a termine. Inoltre, il rapporto a tempo intrattenuto con le Agenzie per il lavoro è soggetto, a livello comunitario, ad una disciplina speciale (la direttiva 104/2008) che impedisce ogni commistione con le regole ordinarie contenute nel d.lgs. 368 del 2001. Altrettanto risolvibile appare il tema dell’applicabilità del tetto del 20% ai contratti commerciali di somministrazione di lavoro. La legge sul punto spiega che il tetto vale per i “contratti a tempo determinato”, escludendo quindi la sovrapposizione tra le due figure. Molto più incerta appare la riforma nel punto in cui regola il regime sanzionatorio applicabile in caso di superamento del tetto del 20%. Da più parti è stata annunciata una rivoluzione copernicana (abbandono della sanzione della conversione del contratto a termine, in favore di una sanzione pecuniaria) che nella legge non c’è. La riforma introduce una sanzione amministrativa, ma non cancella il regime precedente, che – essendo del tutto compatibile con quello nuovo – resta in vita, senza modifiche di sorta. Qualche riserva la suscita anche il regime transitorio, caratterizzato da un livello eccessivo di complessità e sofisticazione. In ogni caso, come detto in premessa, questi dubbi appaiono marginali, rispetto alla portata innovativa dell’abbandono della causale. Questa scelta, infatti, manda un messaggio di fiducia e stabilità verso il sistema economico, senza aprire le porte alla flessibilità indiscriminata (la soglia del 20%, prima inesistente, impedisce per definizione che questo acccada).

(Giampiero Falasca, Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2014)

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