Alessandro Corvino
I dati diffusi dall’INPS attestano l’utilizzo sempre più crescente dei cosiddetti voucher con cui vengono retribuite le prestazioni di lavoro accessorio.
La relativa disciplina, introdotta dalla Legge Biagi ormai da oltre un decennio, ha subito numerose modifiche volte a rendere quanto più agevole l’utilizzo di tale strumento, modifiche intervenute non solo a livello normativo, ma anche che dal punto di vista delle semplificazioni burocratiche: non a caso il canale di acquisto dei “buoni” che nel 2013 ha trovato maggiore successo, proprio grazie alla facile accessibilità, è rappresentato dai tabaccai.
L’utilizzo dei buoni lavoro è quindi diventato ormai prassi diffusa sull’intero territorio nazionale. Secondo i dati INPS, il numero di voucher riscossi dai prestatori di lavoro è incrementato esponenzialmente fra il 2008 ed il 2013; ed è significativo come anche solo fra il 2012 ed il 2013, dopo la liberalizzazione dello strumento (il cui utilizzo non è più relegato a specifici settori) si sia passati da circa 22 milioni di “buoni” percepiti a circa 25 milioni.
Una recente sentenza del Tribunale di Milano (n. 318 del 1° aprile 2014, dott.ssa Di Lorenzo) ha peraltro chiarito che “non vi sono, nella normativa vigente, indicazioni che confinino la liceità del lavoro accessorio nell’ambito della utilizzazione diretta dei lavoratori da parte dell’utilizzatore con esclusione dei rapporti di appalto o di somministrazione”.
La sentenza sconfessa un’incomprensibile limitazione creata dalla prassi INPS, poi ribadita dal Ministero del lavoro, secondo la quale il committente dovrebbe coincidere con “l’utilizzatore” finale della prestazione (cfr. circolare INPS 88/2009 e circolare del Ministero del Lavoro 4/2013).
Come rimarca il Tribunale, questa interpretazione è priva di fondamento dal momento che erroneamente, ed arbitrariamente, fa dire alla legge più di quanto essa realmente dica.
Ma non solo. A ben vedere, la stessa tesi dell’INPS è contraddetta da fonti normative di segno opposto.
Ad esempio, in una delle diverse formulazioni che si sono avvicendate, la legge n. 191/2009 aveva previsto, fra le prestazioni ammissibili anche «attività di lavoro svolte nei maneggi e nelle scuderie», ossia attività che usualmente sono svolte non già in favore del soggetto datore di lavoro / committente (il proprietario del maneggio), ma in favore del proprietario dell’animale che viene affidato al maneggio o alla scuderia.
Ancora, la lettera e) dell’art. 70 (ante riforma) prevedeva quali possibili campi di attività le «manifestazioni sportive, culturali, fieristiche o caritatevoli e di lavori di emergenza o di solidarietà anche in caso di committente pubblico»; anche per tali lavorazioni si verifica una normale “dissociazione” tra chi richiede la prestazione (l’ente che organizza l’evento sportivo, l’organizzazione di volontariato, la società editrice, il comune, etc. etc.) e chi beneficia della prestazione (la società proprietaria dello stadio di calcio, l’ente che ha organizzato la fiera o l’evento culturale o di solidarietà, etc.).
D’altra parte, un’espressa norma (D.M. 24 febbraio 2010 del Ministero dell’Interno) dettata in materia di organizzazione e servizio degli assistenti sportivi (“steward”), autorizza espressamente le società sportive all’impiego dei voucher anche in presenza di un contratto di appalto o di somministrazione
Ma c’è di più. Nel senso che sembrerebbe adombrare la prassi previdenziale ed amministrativa, poche o pochissime attività potrebbero essere svolte, a ben vedere, mediante buoni lavoro, visto che è del tutto normale che una prestazione, al di là del committente che la richiede e la retribuisce, sia poi finalizzata alla soddisfazione di un diverso “utilizzatore finale”. Così, il genitore che acquista buoni lavoro per le ripetizioni del figlio di certo non si avvale direttamente delle lezioni di grammatica o dell’aiuto nel fare i compiti; o lo studente che il fine settimana fa il guardarobiere nel teatro entra in rapporto con gli spettatori; la prestazione dell’universitario che si paga gli studi facendo il barista è “utilizzata” dal cliente e non dal proprietario del locale che ne ha chiesto la prestazione; e della pulizia delle scale del condominio fatta dalla persona impiegata dal condominio, beneficia non già il condominio astrattamente, ma i singoli condomini.
La realtà è che la prestazione di lavoro è (o almeno può essere) normalmente diretta a soddisfare un interesse che è quello del datore di lavoro/committente, indipendentemente da chi poi benefici degli “effetti finali” dell’attività.
Allo stesso modo, è del tutto arbitrario – e, ancora, non trova alcun appiglio normativo – sostenere che il lavoro accessorio avrebbe la “sola finalità di assicurare le tutele minime previdenziali e assicurative in funzione di contrasto a forme di lavoro nero e irregolare”, come sostenuto, nella stessa prassi, dall’Inps.
La finalità della fattispecie non può essere altro che quella dettata dalla legge stessa, e cioè – nel caso specifico – di retribuire le prestazioni lavorative di carattere accessorio, per tali intendendosi quelle che rientrano entro i tetti stabiliti dalla norma.
Ciò indipendentemente dai motivi, purché legittimi, per i quali il committente ritenga di farvi ricorso. Ad esempio – come avvenuto nel caso in esame (riguardante l’utilizzo dei voucher da parte di una società in house, per conto di un Comune, per il pagamento degli addetti al servizio di manutenzione e pulizia di strade) – lo strumento è stato funzionale, come colto dal Tribunale, alla concretizzazione di un progetto di sperimentazione, di carattere sociale, avente lo scopo di favorire sostegno economico ad un certo numero di soggetti in situazione di difficoltà economica dovuta allo stato di disoccupazione.