Somministrazione: correggere il #JobsAct per non “cannibalizzare” un contratto importante

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Claudio Soldà

Il mercato del lavoro ha necessità di certezza e di semplificazione delle regole. Il decreto legge approvato dal Governo offre una prima risposta a questa  esigenza, che troverà piena soddisfazione nella legge delega da poco presentata in Parlamento.

Per il contratto a termine, la norma interviene sulla causale, agevolando così il ricorso a questa tipologia di contratto, e fissa un termine quantitativo (20% dell’organico), che consentirà di contenere l’uso della flessibilità.

La previsione delle 8 proroghe del contratto a termine, senza incidere sui limiti (di numero e di durata) dei rinnovi, lascia però spazio ad alcune criticità:

  1. la norma “di chiusura” che prevede l’obbligo di stabilizzazione dopo 36 mesi di contratto o contratti a termine non pare costituire un presidio sufficientemente solido rispetto alla tenuta della disciplina come riformata dal Decreto di fronte i vincoli europei. L’obbligo infatti opera solo “salva diversa disposizone di accordi sindacali” (anche aziendali) e solo rispetto all’impiego del lavoratore in “mansioni equivalenti”;
  2. l’ampliamento da 12 (Riforma Fornero) a 36 mesi della durata del contratto “a-causale” potrà rappresentare un’occasione di continuità per un numero di lavoratori inferiore al passato. Se in precedenza, su una necessità di tre anni, l’azienda attivava tre singoli contratti di 12 mesi con tre lavoratori diversi, oggi, sempre idealmente, manterrà un solo lavoratore per 36 mesi;
  3. l’eliminazione della causale, l’innalzamento del numero delle proroghe, l’assenza di ogni limite ai possibili rinnovi, aumenterà certo la flessibilità per le aziende ma altrettanto la frammentazione dei periodi di lavoro delle persone, che, a differenza di quanto avviene per i contratti di somministrazione, non hanno un soggetto che può sostenerle nell’individuazione di nuove occasioni. In un sistema cosi disegnato, aumenta il bisogno di intermediazione, di un operatore che possa sostenere la flessibilità in entrata e garantire un più efficace incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro; soluzioni che il contratto a termine da solo non è in grado di garantire. Non esiste, tra l’altro, nessuna previsione che induca le aziende ad investire nell’innalzamento delle competenze professionali o nella ricollocazione dei lavoratori sottoposti al nuovo regime di flessibilità;

La piena liberalizzazione del ricorso al lavoro a termine, così come emerge dal decreto, rischia di comprimere il potenziale del contratto di somministrazione (al quale è necessario riconoscere un’autonoma funzione) con effetti negativi che potrebbero ridurne la diffusione e, di conseguenza, le possibilità di alimentare la forma più virtuosa di flexicurity  presente sul mercato del lavoro. Il rischio può rendersi ancora più evidente tenendo in considerazione quanto indicato nel precedente punto, 3, rilevato che il sistema della somministrazione prevede supporti, economici e di servizi, per controbilanciare i possibili effetti negativi della flessibilità,  a tutto vantaggio per i lavoratori ma con un incidenza maggiore in termini di costo (rectius investimento), pienamente a carico del contesto privato. L’effetto dunque potrebbe essere nel senso di dirigire le scelte delle aziende verso la soluzione di flessibilità all’apparenza meno impegnativa in termini di costi diretti, ma anche meno qualitativa, meno tutelante e meno costruttiva. Questa valutazione, acquista maggiore rilevanza se, in una prospettiva di breve e medio termine, il sistema della somministrazione e delle Agenzie per il Lavoro sarà chiamato a contribuire in maniera concreta alla riuscita dell’iniziativa Garanzia Giovani e alla prevista riforma dei servizi per l’Impiego, indicata nella Legge Delega. Limitare lo spazio di intervento delle Agenzie per il Lavoro significa indebolirne la funzione economico-sociale assegnata dalla normativa europea e nazionale, ma significa anche ridurre le opportunità di incontro tra domanda e offerta di lavoro.

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