L’occupazione a Milano, gli spunti che ci offre lo studio delle “mappe”

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Francesco Giubileo
Milano, la città delle opportunità o una trappola del precariato
A lungo in questi mesi si è parlato della possibilità di introdurre il contratto unico, per capire l’utilità di questo strumento, utilizziamo come esempio mercato del lavoro nel capoluogo lombardo.

Il centro metropolitano milanese è veramente un potentissimo attrattore nel mercato del lavoro in Italia. Solo tra il 2010 e 2012 hanno trovato lavoro a Milano quasi un milione di persone di cui solo una minima parte abita nella città. Per avere un quadro generale della dinamicità del mercato del lavoro milanese basta guardare la mappa sottostante, in cui ogni puntino rappresenta una nuova opportunità di lavoro creata. Milano da sola rappresenta il 5% delle occasioni di lavoro create in tutto il paese; in alcuni settori del terziario avanzato tale percentuale sfiora il 10 o anche il 20%.

A questo punto qualcuno potrebbe sostenere che la “crisi” non c’è, che tutto sommato il quadro dipinto dalla stampa è gonfiato e sotto-sotto se i giovani si dessero da fare, si potrebbe ridurre quel terribile 40 % di disoccupazione, frutto pertanto del “mismatch” tra domanda e offerta di lavoro. Magari fosse così facile.
In realtà se da una parte si creano ogni anno centinaia di migliaia di nuove opportunità occupazionali, dall’altra ne muoiono altrettante. Ahimé in molti casi il datore di lavoro e la mansione professionale richiesta non cambia, purtroppo a cambiare sono solo i lavoratori, la città è diventata una vera “centrifuga” occupazionale, dove le persone costantemente girano come in una giostra, all’interno di un sistema di mobilità occupazionale assolutamente orizzontale.

Sulla base dai vari report realizzati dall’Osservatorio del mercato del lavoro della provincia di Milano è possibile formulare delle ipotesi che chiariscono in parte questo fenomeno ormai sempre più accentuato. Innanzitutto, va detto che si tratta di una popolazione assolutamente eterogenea che presenta alcune specifiche peculiarità nel rapporto con il datore di lavoro:

1. un gruppo di soggetti è specializzato in settori in cui la domanda di lavoro dipende da commesse particolari o sporadiche (operatori nell’assistenza sociale o in ricerche di mercato). Tali aziende non sono in grado di offrire contratti di lungo periodo, ma solo opportunità legate al limitato numero di commesse;
2. un gruppo è volontariamente “atipico” perché questa situazione è legata al profilo occupazionale, si tratta di soggetti indifferenti al tipo di contratto, perché ben apprezzati sul mercato anche in questo periodo di recessione. Addirittura in questo caso è il datore di lavoro che propone il contratto a tempo indeterminato per tutelarsi in caso di sostituzione (sono i 40enni che hanno acquisito una consolidata esperienza, con un profilo di competenze a livello internazionale e operane a livello quadro nel settore legale, ingegneristico ed economico nelle poche grandi aziende presenti sul territorio);
3. infine, il gruppo più esteso – e focalizzato in attività occupazionali di basse-qualifiche (pulizie, ristorazione, mense, commercio al dettaglio) purtroppo paga pesantemente gli effetti negativi dei contratti atipici e qui in molti casi il sospetto di “opportunismo” della domanda di lavoro è molto forte.

Questo ragionamento si colloca molto bene nella discussione attuale sul tema del precariato e quale tra la proposta del governo o la possibilità di un contratto unico a garanzie graduali possa rappresentare la migliore risposta.
Sicuramente per il terzo gruppo, il contratto unico rappresenta la soluzione ottimale, soprattutto se questo venisse integrata in un modello di ricollocamento (come quello suggerito dal prof. Pietro Ichino) volto a garantire un sistema di politiche attive al lavoro il più possibile vicino alla Dote unica del lavoro presente in Regione Lombardia.

Il secondo gruppo sarà indifferente al problema, a differenza del primo in cui il datore di lavoro potrebbe seriamente avere dei problemi nel finanziare il sistema di “penali”, con il rischio di far ricadere questo costo direttamente sul lavoratore o rifugiarsi in contratti a progetto o false partite iva mono – committenti (cosa già comune).
Infine aggiungo un’ultima considerazione, data l’esiguità di trasformazioni e proroghe e visto che tra il numero di contratti avviati e cessati la vera differenza rischia di essere molto contenuta, qui si pone una questione centrale: possiamo creare il miglior strumento di politica attiva al mondo, ma se non interveniamo sul lavoro con programmi di creazione e supporto al lavoro come in Danimarca, Svezia, Francia, Olanda, Germania e anche lo stesso Regno Unito, questi strumenti rischiano di fallire clamorosamente o di produrre un effetto marginale sul mercato del lavoro.
D’altronde spesso si confonde le politiche attive con la cura per la disoccupazione italiana, che andrebbero invece considerate al massimo come un “tampone temporaneo” ai mali del nostro mercato del lavoro, che necessita invece di “cure pesanti” che solo le “inflazionate” riforme strutturali (che di certo non sono qualche ora in più di orientamento o formazione professionale) possono dare .

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