di Francesco Giubileo, Marco Leonardi e Francesco Pastore
Nella relazione del primo ministro Matteo Renzi sul Jobs Act approvata dal Consiglio dei ministri, si prevede, tra le diverse proposte, la possibilità di introdurre un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori in caso di licenziamento involontario. Al nuovo ammortizzatore sociale si dovrebbe affiancare un sistema di “attivazione” volto al ricollocamento del disoccupato oppure almeno ad un suo reinserimento sociale.
Si tratta di provvedimenti in linea con lo European Youth Guarantee e l’esigenza espressa dal Parlamento Europeo di offrire a tutti i giovani disoccupati una occasione di occupazione, istruzione o formazione professionale entro i primi quattro mesi dall’inizio dell’esperienza di disoccupazione, l’idea (già presente nel precedente governo) è quella di realizzare contemporaneamente l’attuazione del programma di garanzia dei giovani con una strutturale riforma delle politiche del lavoro e dei servizi pubblici per l’impiego.
Alla base di questa riforma, c’è l’introduzione di un approccio contrattualistico nell’assegnazione dei sussidi (nota come “Condizionalità”), poiché la stessa è subordinata all’accettazione di certe condizioni da parte del beneficiario e, in particolare, allo svolgimento di un compito ben preciso, quale appunto un lavoro di pubblica utilità. L’approccio contrattualistico ai sussidi di disoccupazione, che prevede una controprestazione da parte del beneficiario, è nato nella tradizione scandinava, così come l’idea dello Youth Guarantee, per scoraggiare i comportamenti opportunistici dei lavoratori: senza un qualche corrispettivo, diventa più comodo per il disoccupato prendere il sussidio senza lavorare, piuttosto che un qualunque salario lavorando. L’obbligo di svolgimento di lavori di pubblica utilità ha lo scopo di mantenere alto il grado di attività della ricerca di un posto di lavoro stabile da parte del beneficiario.
L’evidenza empirica disponibile sembra confermare le aspettative teoriche. Come dimostra il lavoro di Rosholm e Svarer, in alcuni paesi, i lavori di pubblica utilità sembrano effettivamente generare un impatto positivo sulla propensione dei beneficiari di sussidi a lavorare e riducono percettibilmente il periodo di disoccupazione.
Curiosamente, a incidere sul successo o meno dello strumento non è la capacità dello strumento di incidere sull’occupabilità, quanto la “minaccia” di essere obbligati a svolgere un tipo di lavoro considerato poco desiderabile da molti disoccupati . Tale minaccia sembra incentivare la ricerca di un lavoro in tempi più rapidi (i primi tre mesi di erogazione del sussidio non sono vincolati da un percorso di inserimento lavorativo), che si stima in una uscita dalla disoccupazione di almeno tre settimane anteriore a qualle di coloro che non risultano beneficiari dello strumento. In altre parole, l’obbligo di svolgere servizi di pubblica utilità è considerato da molti beneficiari di sussidi di disoccupazione un’alternativa peggiore della ricerca attiva di un lavoro.
Nel caso italiano, l’obbligo di svolgere servizi di pubblica utilità potrebbe svolgere un ruolo leggermente diverso, ma non meno importante: esso disincentiverebbe il lavoro nero durante il periodo di beneficio dello strumento e, nei casi più svantaggiati, si avvierebbe un percorso di reinserimento sociale e lavorativo rispetto al rischio di finire parcheggiato in inutili percorsi di formazione professionale.
Il tema sui “Lavori socialmente utili” in Italia è oggetto di dibattito per almeno due motivi:
Il primo è che questo sistema di lavori socialmente utili non deve essere un ripiego all’incapacità del sistema di attivazione dei disoccupati, piuttosto va considerato come uno step successivo alla concreta difficoltà del disoccupato di trovare un lavoro, dopo averne verificato e valutato l’effettivo sforzo nel cercarlo (nel Regno Unito questa attività è minuziosamente verificata). Il secondo caveat è ovvio: appena si parla di lavori socialmente utili il pensiero corre ai forestali della Calabria. I lavori socialmente utili non possono essere un sistema per rendere permanente lo status di disoccupato, piuttosto come in Danimarca, dovrebbero avere una precisa durata massima e nello stesso tempo accompagnate comunque da attività di accompagnamento assistito verso altri lavoro da parte dei Centri per l’impiego (nelle condizioni attuali una vera utopia).
In conclusione, partendo proprio dal fallimento delle precedenti sperimentazioni, questo strumento non va pensato esclusivamente come “funzionale” alle chance occupazionali di una persona, quanto piuttosto all’eventualità di re-inserimento nel contesto sociale e culturale (per esempio non si esclude la possibilità di svolgere questi lavori nelle biblioteche, musei o mostre).