Il nostro diritto del lavoro danneggia in misura rilevante la competitività del sistema Paese; gli investitori stranieri non riescono a capire per quale motivo dietro a ogni norma si debbano sviluppare grandi incertezze applicative e altrettanti grandi filoni di contenzioso. Questa situazione, già molto deficitaria, non di rado viene aggravata dalle sentenze della Corte di Giustizia Europea, come nella vicenda del licenziamento collettivo dei dirigenti. Una legge nazionale (la famosa 223 del 1991) governa da oltre 20 anni le crisi aziendali. Questa legge non si applica ai dirigenti, perchè questa categoria di lavoratori, da sempre, gode di tutele differenti (e migliori) rispetto a quelle degli altri dipendenti. Nonostante questo trattamento migliorativo, l’esclusione dalla procedura – secondo la Corte di Giustizia Europea – è illegittima, perchè i dirigenti sono lavoratori come tutti gli altri. Sulla base di un principio tutto da discutere, la sentenza apre un ulteriore fronte di incertezza sulle regole del lavoro di cui nessuno sentiva il bisogno.
Il primo problema creato dalla sentenza riguarda l’individuazione della regola da seguire per il prossimo futuro.
Mentre fino a ieri il licenziamento del dirigente era una questione sempre e soltanto individuale, a prescindere dal numero complessivo di esuberi gestiti dall’azienda, ora la questione cambia radicalmente.
Ogni volta che dovranno essere effettuati dei licenziamenti plurimi, il computo degli esuberi dovrà tenere conto anche dei dirigenti eventualmente coinvolti, e la soglia prevista dalla legge per l’obbligo di utilizzo della procedura collettiva (almeno 5 esuberi per unità produttiva, nell’arco di 120 giorni) scatterà con maggiore facilità.
Il principio affermato dalla sentenza crea un altro problema, ancora più difficile da gestire: come applicare le singole regole procedurali contenute nella legge n. 223 del 1991 ai dirigenti? La Corte di Giustizia Europea si è limitata a dire che questi lavoratori sono ingiustamente esclusi dalla procedura, quindi i datori di lavoro, per essere conformi al principio, dovranno applicare tutte le singole regole della procedura anche ai dirigenti, senza fare distinzioni.
Questa non sarà un’operazione agevole. Potrà essere semplice coinvolgere i dirigenti nella fase di avvio della procedura: basterà includerli nella lista del personale in esubero, e invitare i loro rappresentanti sindacali al tavolo negoziale. Meno facile sarà l’applicazione di altre regole, come quella sui criteri di scelta dei lavoratori da licenziare o sulle comunicazioni da inviare alla fine della procedura.
C’è modo per evitare che accada tutto questo? Forse si. La sentenza della Corte di Giustizia dice che la legge n. 223 del 1991 deve includere i dirigenti, ma non vieta di cambiare le regole contenute nella legge medesima, almeno per questa categoria di lavoratori. Il legislatore italiano potrebbe quindi introdurre delle norme semplificate per il licenziamento collettivo dei dirigenti, dovendo rispettare solo i paletti minimi che, secondo la Direttiva n. 98/59, devono essere applicati verso tutti i lavoratori coinvolti da procedure di questo tipo. Pertanto, dovrebbero i essere rispettati i limiti numerici previsti dalla Direttiva (che fa scattare l’obbligo di applicare procedura per esuberi che vanno da 10 o 20 unità, secondo le dimensioni dell’impresa, nell’arco di 30 0 90 giorni), e dovrebbe essere garantito lo svolgimento di consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori. Fatti salvi questi aspetti, l’introduzione di una disciplina più snella sarebbe possibile e, anzi, sarebbe urgente. In questo modo, infatti, la direttiva comunitaria sarebbe rispettata, e la specificità del lavoro dirigenziale sarebbe fatta salva. Certamente, fino a quando questa normativa non sarà adottata, i problemi applicativi prima segnalati resteranno aperti.
La sentenza apre uno scenario problematico anche per tutti quei licenziamenti già intimati, che non si sono ancora conclusi con un accordo conciliativo oppure una sentenza passata in giudicato.
Il Giudice chiamato a valutare questi recessi dovrà decidere se ammettere la possibilità di invocare tardivamente il vizio relativo al mancato svolgimento della procedura; inoltre, il Giudice dovrà decidere se salvaguardare il legittimo affidamento dell’azienda, che ha rispettato le regole previste dalla legge vigente, oppure sanzionarla comunque, per non aver rispettato i principi ricavabili dalla Direttiva comunitaria.
(Da Il Sole 24 Ore, 13/14 febbraio)
Un articolo dall’incipit veramente pessimo…
E’ la visione tutta italiana delle responsabilità: la colpa non è mai nostra, semmai del vicino. Questa volta la colpa non è del legislatore italiano, ma dei Giudici della Corte Europea di Giustizia, che come noto, vendono frutta e verdura al mercato rionale e nel tempo libero si improvvisano giuristi. Quei Signori infatti, secondo la visione di chi ha scritto questo articolo, sono i colpevoli di aver contribuito, dopo vent’anni, a porre sullo stesso piano tutti i lavoratori, siano essi dirigenti, quadri, impiegati o operai. DIcesi discriminazione, ma a noi, evidentemente, piace.
Gusti a parte, quel che davvero non comprendo è come possa essere pubblicato un articolo come questo, dove si prendono posizioni ideologiche senza approfondire le motivazioni di quelle posizioni. Chi lo ha scritto infatti, sostiene che il principio di non discriminazione applicato dalla Corte di Giustizia sia tutto da discutere, ma, evidentemente per carenza di argomenti di discussione, dimentica di discuterne (perdonatemi il biticcio lessicale). Due domande a chi ha scritto l’articolo:
1. Si scrive che “la sentenza apre un ulteriore fronte di incertezza sulle regole del lavoro di cui nessuno sentiva il bisogno.” E’ davvero così? Nessuno sentiva il bisogno di questa pronuncia? Il ricorso alla Corte allora chi lo ha presentato?
2. Potete scrivere quali siano le disposizioni di legge migliorative, per i dirigenti, rispetto agli altri lavoratori? A me non viene in mente nulla, sarò consfuso….