Anche per i dirigenti va fatto il licenziamento collettivo. La Corte di Giustizia Europea condanna l’Italia

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Con la sentenza del 13 febbraio scorso (Causa n. 596/2012), la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato l’illegittimità della normativa italiana sui licenziamenti collettivi (la legge n. 223 del 1991), nella parte in cui esclude dalla procedura la categoria dei dirigenti. Secondo la Corte, questa esclusione non trova fondamento e giustificazione nella disciplina comunitaria, con la conseguenza che anche i dirigenti devono essere assoggettati, quando ne ricorrono le condizioni, alla procedura di licenziamento collettivo. La sentenza conclude una controversia promossa dalla Commissione Europea, che ha adito la Corte di Giustizia sostenendo che l’esclusione dei dirigenti dall’ambito di applicazione della legge sui licenziamenti collettivi contrastava con la Direttiva n. 98/59.
In particolare, secondo la Commissione la normativa italiana contrasta con l’articolo 1 della Direttiva, nella parte in cui stabilisce che la disciplina sui licenziamenti collettivi si applica a tutti i lavoratori, con la sola eccezione dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, e degli equipaggi di navi.
La Repubblica Italiana, nel corso della lunga procedura di confronto che ha preceduto la causa, ha sostenuto che la normativa italiana comporta l’applicazione, in favore dei dirigenti, di un trattamento di miglior favore, e quindi non sussiste alcun profilo di contrasto con le norme comunitarie.
La Corte di Giustizia ha respinto questa lettura e, aderendo ai rilievi mossi dalla Commissione, ha rinvenuto l’esistenza di un contrasto tra la normativa italiana e quella comunitaria. Per arrivare a questa conclusione, la Corte parte da un assunto: la direttiva che armonizza le norme applicabili ai licenziamenti collettivi serve a garantire a tutti i lavoratori comunitari un livello di protezione uniformare.
Pertanto, la nozione di «lavoratore» soggetto alle norme comunitarie non può essere stabilita dalle legislazioni degli Stati membri, ma deve essere definita secondo criteri comuni a tutti i singoli ordinamenti.
Prosegue la Corte sostenendo che la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest’ultimo, prestazioni in cambio delle quali percepisce una retribuzione.
A fronte di questa nozione, secondo la Corte non vi sono dubbi che i dirigenti possano essere considerati come “lavoratori”, così come risulta altrettanto pacifico che tali soggetti non sono inclusi dentro l’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo prevista dalla legge n. 223 del 1991.
Questa esclusione non trova giustificazione nel fatto che i dirigenti riceverebbero un trattamento di miglior favore, in quanto lo scopo della normativa comunitaria è quello di ridurre il numero degli esuberi, mediante il confronto e l’esame congiunto con le organizzazioni sindacali.
Se questa fase di confronto non viene attuata, la direttiva 98/59 risulta parzialmente privata del suo effetto utile, a prescindere dalle misure sociali di accompagnamento eventualmente previste in favore dei dipendenti.
Questo concetto è rafforzato, secondo la Corte, dal fatto che la direttiva 98/59, fatta eccezione per alcuni casi tassativamente previsti, non ammette, né in modo esplicito né in modo tacito, alcuna possibilità per gli Stati membri di escludere dal suo ambito di applicazione questa o quella categoria di lavoratori.
Lo scenario che apre la sentenza appare preoccupante, in quanto sul piano giudiziale potrebbe aprirsi un fronte di contenzioso nuovo e inatteso. Pare urgente un intervento normativo che integri la legge secondo le indicazioni comunitarie.

(Il Sole 24 Ore, 13.02.14)

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