E’ appena uscita la sesta edizione del Manuale di Diritto del Lavoro di Giampiero Falasca; riportiamo la prefazione dell’autore.
Il diritto del lavoro italiano attraversa una fase di profonda crisi, in quanto non riesce più a regolare in maniera efficiente i percorsi lavorativi e, anzi, penalizza pesantemente la competitività del Paese.
Se guardiamo quello che sta accadendo nell’economia reale, infatti, scopriamo che il calo occupazionale di questi anni non dipende solo dalla crisi economica.
Molte imprese, anche quando hanno i conti a posto, non sono più disponibili a sopportare un ordinamento del lavoro illogico, nel quale è troppo difficile assumere dipendenti e gestirli in maniera efficiente; questo ordinamento punisce con grande rigore chi, pur utilizzando contratti regolari, incappa in errori formali anche lievi, mentre non riesce a contrastare fenomeni di elusione di massa delle regole.
L’ordinamento comunica, in questo modo, un messaggio di ostilità a chiunque intende assumere dipendenti in maniera regolare.
Questo problema interessa soprattutto il lavoro flessibile.
Abbiamo una pletora sterminata di contratti, tutti a rischio di contenzioso, quando basterebbero poche tipologie di lavoro (un solo contratto per i lavori saltuari, invece che 6-7 forme, l’apprendistato ancora più semplificato, la somministrazione liberata da lacci e lacciuoli inutilmente punitivi, il lavoro a termine libero da formalismi assurdi come la causale); questi contratti dovrebbero essere ripensati sulla base di regole capaci di consentire un loro utilizzo semplice ed immediato.
Un intervento di questo tipo sarebbe utile a ridurre immediatamente il contenzioso (oggi imponente) sul lavoro flessibile, e potrebbero ridurre gli ingenti costi transattivi e indiretti (consulenze, procedure interne, rallentamenti operativi, rischi di causa) che ogni azienda deve sostenere per poter utilizzare il lavoro flessibile.
Mentre il lavoro flessibile è sempre complicato da utilizzare, alcune forme di lavoro ben più discusse e discutibili – ad esempio, il lavoro a progetto – proliferano quasi senza controllo, creando un fenomeno di elusione di massa quasi unico in Europa. A questo, si aggiunge la piaga del lavoro nero, mai affrontata e tanto meno risolta con misure efficaci.
I problemi del diritto del lavoro italiano non si fermano all’assunzione, ma investono pesantemente anche la fase di gestione del rapporto di lavoro.
E’ molto difficile cambiare le mansioni di un dipendente senza scatenare un contenzioso, è addirittura impossibile modificarle in peggio, anche quando il lavoratore, per i motivi più disparati, non è più adatto a svolgere certi compiti.
Il risultato è che le aziende tendono ad espellere manodopera che supera una certa soglia di età, quando invece servirebbero regole flessibili, capaci di salvare la professionalità dei lavoratori maturi, adibendoli a mansioni diverse, anche inferiori, piuttosto che metterli di fronte alla drammatica scelta tra diventare un top manager o essere espulso dal luogo di lavoro.
Un altro problema drammatico è il costo del lavoro, che erode due terzi dello stipendio.
Da anni si lanciano slogan sulla retribuzione di produttività, ma finora la montagna di parole, accordi sindacali, leggi e circolari ha prodotto un topolino sgangherato.
Ogni anno lo Stato distribuisce una piccola mancia a piè di lista sui salari più bassi secondo regole cervellotiche e sempre diverse; sarebbe invece importante dare stabilità a questo sistema, uscendo dalla logica dei decreti annuali.
C’è poi un grande problema che interessa tutte la fasce d’età; le competenze sono poche, e si bruciano rapidamente. Il problema nasce nelle scuole e nelle università, che continuano a sfornare giovani che non parlano l’inglese e non hanno mai messo piede in un’azienda, e continua durante il lavoro, perché le aziende non investono in formazione e, quando lo fanno, non sono adeguatamente incentivate.
Anche quei pochi strumenti che potrebbero fare da ponte tra la scuola e il lavoro – l’apprendistato e, ancora prima, gli stage – restano intrappolati in complessità normative difficili da spiegare; il caso dei tirocini è eclatante, ci sono regole che cambiano da una regione all’altra le regole, ed è impossibile creare una normativa unica (per i vincoli derivanti dal Titolo V, riforma costituzionale fallimentare e in alcuni casi dannosa).
Questi temi sono stati per anni offuscati dal dibattito sull’articolo 18. La legge Fornero, per molti aspetti discutibile, su questo punto sta iniziando a dare qualche risultato; sarebbe bene, quindi, che il sistema politico dimenticasse la questione dei licenziamenti, e si dedicasse, per una volta, ad affrontare e risolvere quelle emergenze che forse danno meno visibilità nel dibattito pubblico, ma che sono decisive per il futuro del Paese.
La prefazione tocca molti temi, tutti, a mio avviso, riconducibili ad uno solo, quello “politico”.
Chissà se dal ventilato “job act” arriverà qualche aiuto concreto in particolare sul fronte dei contratti?