Tot capita tot sententiae: tutto capita nelle sentenze. L’assurdo contrasto sul rito Fornero che rischia di invalidare migliaia di cause

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Ci sono vicende che testimoniano, meglio di tante parole, la gravità della crisi nella quale sta sprofondando il nostro sistema giudiziario. Una testimonianza molto efficace di questa situazione viene data dall’incredibile vicenda del rito Fornero: la riforma giudiziaria che avrebbe dovuto velocizzare il processo del lavoro è, a distanza di solo un anno e mezzo, applicata in maniera diversa tra un Tribunale all’altro e – notizia di questi giorni –  è oggetto di letture opposte tra corti dello stesso territorio. Iniziano a circolare, infatti, proprio in questi giorni i provvedimenti con i quali il Presidente del Tribunale di Milano disattende l’orientamento della Corte d’Appello, sempre di Milano, in merito all’annosa questione del giudice che deve esaminare il rito Fornero.

Ma per capire meglio, partiamo dall’inizio della storia.

Il primo grado del processo sul lavoro, secondo le regole introdotte dalla legge Fornero del 2012, si compone di due fasi. In una prima fase sommaria, il lavoratore impugna il licenziamento, senza tante formalità, e il Giudice decide con ordinanza, mediante la quale si può proporre opposizione. A seguito dell’opposizione si instaura un giudizio ordinario, nel corso del quale le parti riesaminano la vicenda, con istruttoria e contraddittorio integrali. Sin dall’approvazione della riforma, è sorto un problema interpretativo molto importante: quale giudice deve occuparsi di valutare l’opposizione contro l’ordinanza emessa nel corso della prima fase sommaria? Alcuni Tribunali si orientano nella direzione di assegnare il rito sommario e la fase di opposizione a giudici diversi (Roma, Venezia, Torino, Firenze), mentre altri hanno deciso di assegnare le due fasi in capo allo stesso giudice.

E’ la strada scelta in questi mesi dal Tribunale di Milano, che ha escluso la sussistenza di un obbligo del giudice che ha deciso il rito sommario di astenersi (ai sensi dell’art. 51 del codice di procedura civile), in quanto il giudizio di opposizione non avrebbe natura impugnatoria. Le due fasi, secondo questa lettura, farebbero parte di un percorso unico – una prima parte a cognizione meramente sommaria, ed una fase successiva e eventuale a cognizione piena – e quindi non necessitano di un giudice diverso.

Questa lettura non è condivisa dalla Corte d’Appello di Milano che, con una decisione del 13 dicembre scorso (sentenza n. 1577/2013) ha stabilito che il giudice della fase sommaria e quello del giudizio in opposizione non può essere la stessa persona, in quanto sarebbe violato il principio di imparzialità (con conseguente nullità della sentenza).

Tutto risolto quindi? Neanche per sogno. Come anticipato, il Presidente del Tribunale di Milano ha deciso di continuare a seguire la propria interpretazione, e sta rigettando tutte le diverse domande di astensione proposte dai giudici milanesi (domande proposte per dare attuazione alla sentenza della Corte di Appello). Come si legge nelle motivazioni di questi provvedimenti di rigetto, il Presidente continua a non ritenere incompatibili la coincidenza del giudice nelle due fasi. Considerato che la Corte d’appello sostiene, invece, che l’identità del giudice può portare alla nullità di tutte le sentenze, lo scenario che si apre nei prossimi mesi è veramente preoccupante. Sarebbe opportuno ed urgente che qualcuno si facesse carico – anche con una norma interpretativa (ma sulla vicenda incombe anche la Corte Costituzionale) – di decidere, una volta per tutte, quale regola si applica.

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