#Job act, la falsa partenza di Matteo Renzi

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La prima iniziativa politica di Matteo Renzi, in veste di segretario del PD, è stata dedicata al lavoro.

Si tratta di una scelta giusta, per troppo tempo la politica – e questo Governo – ha messo in secondo piano un tema che, in questo periodo, dovrebbe avere una priorità assoluta.

Molto efficace anche la scelta di come comunicare la volontà di riformare il lavoro: il titolo “job act” evoca tante cose, tutte molto positive.

Meno positivi e, anzi, ancora troppo lacunosi, paiono invece i contenuti.

Renzi non è sfuggito al solito tranello, trito e ritrito, dell’articolo 18, ed ha rilanciato una proposta – quella del contratto unico – che sembra nuova mentre è profondamente vecchia e logora.

Quella proposta, infatti, appartiene ad un mondo nel quale l’articolo 18 era simbolo di reintegrazione sul posto di lavoro; quell’articolo 18 dopo la legge Fornero non esiste più e, pur con troppi formalismi, la nuova norma inizia a funzionare.

Il contratto unico ha un altro grande difetto: si occupa solo della parte finale del rapporto di lavoro mentre non incide sui mille nodi che interessano i momenti precedenti (l’assunzione e la gestione del rapporto).

Le assunzioni oggi sono frenate dalla crisi economica, sicuramente, ma anche da un ordinamento soffocante – 15 mila precetti, molti inutili – che pare orientato a punire chi applica le regole (si pensi ai mille formalismi giuridici dei contratti a termine) mentre premia chi viola totalmente le regole (come dimostra la proliferazione delle partite iva e delle cocopro false).

E anche una volta che c’e’ l’assunzione, le cose non migliorano: le mansioni sono fonte continua di contenzioso, la retribuzione deve sempre crescere anche se l’azienda è in crisi, il costo del lavoro mangia due terzi dello stipendio.

Servirebbe un piano straordinario per la semplificazione, che eliminasse tutte le procedure inutile, le regole che servono solo a creare contenzioso, e i mille incomprensibili rivoli del lavoro flessibile.

Per quanto riguarda il lavoro flessibile, non servono 40 contratti, tutti a rischio di contenzioso, bastano poche tipologie di lavoro flessibile (una per i piccoli lavoro, l’apprendistato, la somministrazione, il lavoro a termine), che siano facili da usare e soggette a poche e semplici regole (durata massima di 3 anni, e poi assunzione a tempo indeterminato, e poco altro, senza causali ed orpelli vari); queste regole dovrebbero premiare i contratti regolari (termine, somministrazione) e puniscano quelle forme precarizzanti (il lavoro a progetto, da cancellare senza incertezze).

In questo scenario, preoccuparsi solo del licenziamento può aiutare a conquistare qualche titolo di giornale, ma rischia di creare le basi per l’approvazione dell’ennesima riforma inutile.

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