Contratto a termine: legittima per la Corte di Giustizia l’indennità ridotta rispetto all’art. 18

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La differenza di trattamento che opera la legge italiana tra chi ottiene la conversione di un contratto a termine illegittimo, e chi viene ingiustamente licenziato, è pienamente compatibile con le norme comunitarie: l’ordinamento europeo, infatti, vieta l’approvazione di regole discriminatorie nei confronti dei lavoratori a termine, ma non impedisce di trattare in maniera differente situazioni che non sono equivalenti tra loro.
Questo il principio affermato dalla Corte di Giustizia Europea nella causa C-361/2012, promossa da una lavoratrice che ha chiesto al Tribunale di Napoli l’accertamento della nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro, in quanto la causale sostitutiva apposta al contratto non era accompagnata da alcune indicazioni ritenute essenziali (l’identità dei lavoratori da sostituire, la durata della loro assenza e il tipo specifico di ragioni sostitutive). Come conseguenza di tale accertamento, la dipendente ha chiesto la riqualificazione del suo contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, la reintegrazione nel suo posto di lavoro e il pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo passato dalla fine del rapporto alla ripresa del lavoro.
Il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda di accertamento della nullità del termine, ma solo con sentenza parziale; questo perchè, secondo il giudice, la domanda sulle conseguenze retributive della conversione del rapporto richiedeva il preventivo accertamento, da parte della Corte di Giustizia Europea, in merito al possibile conflitto tra il regime di indennità previsto per il lavoro a termine nel c.d. collegato lavoro e le le tutele riconosciute dall’art. 18 della legge n. 300/1970 (lo Statuto dei lavoratori) in favore del dipendente assunto a tempo indeterminato, di importo più elevato.
Tale dubbio, ad avviso del Giudice di Napoli, sarebbe legittimato dalla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, nella parte in cui vieta di discriminare i lavoratori assunti a tempo determinato.
La Corte di Giustizia, come accennato, ha escluso la sussistenza dei profili di incompatibilità adombrati dal giudice italiano. Analizzando l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, la Corte ricorda che uno degli obiettivi della normativa comunitaria è quello di garantire la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, al fine di impedire che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato.
Tuttavia, secondo la Corte, dalla formulazione letterale della clausola 4, punto 1 emerge che il diritto alla parità di trattamento fra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato si applica solo qualora gli stessi si trovino in situazioni comparabili.
Questa caratteristica, prosegue la Corte, manca nel caso in questione, in quanto l’indennità riconosciuta ai lavoratori a tempo determinato ha come presupposto la violazione delle regole che consentono di apporre un termine al rapporto, mentre il risarcimento riconosciuto ai lavoratori assunti a tempo indeterminato presuppone la violazione delle regole che limitano il potere di licenziare un dipendente.
Trattandosi di due situazioni così differenti, quindi, non si pone il problema di comparare la regole applicabili nell’uno o nell’altro caso, e ciascuno Stato membro resta libero di regolare in maniera differente tali fattispecie.

Giampiero Falasca, Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2013

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