Il decreto sulla scuola contiene una norma che è tanto giusta dal punto di vista concettuale, quanto incerta dal punto di vista tecnico. Parliamo dell’art. 8 del d.l. 104/2013, nella versione risultante dalle prime modifiche apportate in sede parlamentare (non ancora approvate in via definitiva); tale norma prevede che le università (con esclusione di quelle telematiche), le scuole e gli istituti tecnici superiori potranno stipulare convenzioni con singole imprese o con gruppi di imprese, per realizzare progetti formativi congiunti che prevedano che lo studente, nell’ambito del proprio curriculum di studi, svolga un adeguato periodo di formazione presso le aziende, sulla base di un contratto di apprendistato.
Le convenzioni firmate con le aziende avranno la possibilità di definire i corsi di studio interessati, le procedure da adottare per individuare gli studenti da coinvolgere nei percorsi di apprendistato, le caratteristiche dei tutori, le modalità di verifica delle conoscenze acquisite durante il periodo di apprendistato e il numero di crediti formativi riconoscibili a ciascuno studente (ma viene fissato un tetto massimo di sessanta crediti).
Come si diceva, la norma afferma un principio valido e indiscutibile, quello dell’alternanza tra i percorsi di istruzione, anche di livello universitario, e il lavoro: tale principio, come accede in altri Paesi europei, dovrebbe informare tutto il nostro sistema educativo, in quanto costituisce la strada maestra per creare un ponte efficace capace di traghettare i giovani nel mercato del lavoro. Il problema della norma sta nel fatto che questo principio, dal punto di vista legislativo, è stato già affermato nell’ormai lontano 2003, quando la legge Biagi (il d.lgs. n. 276/2003) ha introdotto tre diversi percorsi di apprendistato, uno dei quali caratterizzato proprio dall’alternanza tra università (o scuola) e lavoro. Per molti anni questa normativa è rimasta sulla carta, in quanto non sono state approvate le norme regionali che avrebbero dovuto darvi attuazione. Nel 2011, con il Testo Unico sull’apprendistato, per superare questi ritardi, tale forma di apprendistato è stata riformata, acquistando il nome di “apprendistato di alta formazione”; la nuova disciplina ha confermato il ruolo centrale delle Regioni nella disciplina di questa forma di apprendistato, ma ha riconosciuto la possibilità per le singole aziende, in assenza di una normativa locale, di stipulare intese con le istituzioni formative allo scopo di attivare il percorso formativo. Anche dopo questa novità, le normative regionali sono rimaste molto poche, e anche le convenzioni tra aziende e istituzioni normativa.
Il d.l. 104/2013 ripropone, quindi, un sistema già previsto dall’ordinamento, e invece di andare a toccare i punti critici che ne hanno frenato il decollo, la ripropone come se fosse una novità. A ben vedere, la nuova disciplina ha un elemento innovativo, nella parte in cui si esclude qualsiasi rinvio alle norme regionali come fonte di regolazione dell’apprendistato di questo tipo. Questo tipo di soluzione va sicuramente incontro alle esigenze di semplificazione del mercato, ma non può essere perseguita in maniera affrettata: le competenze regionali sono sancite dall’art. 117 della Costituzione e, per quanto tale norma stia oggi dimostrando tutti i suoi limiti, bisogna evitare di andare incontro a sicure pronunce di incostituzionalità. Una buona prassi seguita in passato per evitare questo rischio è quella relativa alla più comune forma di apprendistato, quello professionalizzante: il Testo Unico del 2011 ha superato la frammentazione regionale, ma solo all’esito di un percorso che ha visto un accordo preventivo in conferenza Stato Regioni.
Durante i lavori parlamentari, sarebbe quindi opportuno lavorare su questi aspetti, onde evitare inutili ripetizioni legislative che non portano alcun miglioramento effettivo al sistema.
(da Il Sole 24 Ore, novembre 2013)