Stefania Cordeddu
Gli usi aziendali.
Le aziende, talvolta, riconoscono in modo spontaneo e per liberalità, ai propri dipendenti dei benefit, dei trattamenti più favorevoli rispetto alla disciplina legale e contrattuale (come es. riposi aggiuntivi, polizze aziendali sanitarie, polizze assicurative per malattia ed infortuni, riduzione d’orario, premi periodici di produttività e così via). Queste agevolazione se protratte nel tempo possono formare degli usi aziendali e trasformarsi da atto di liberalità in atto dovuto di non facile revoca.
Cosa sono gli usi aziendali?
Gli usi aziendali, sono individuati e definiti da una vasta e complessa casistica giurisprudenziale. La medesima giurisprudenza, afferma che per la loro formazione è necessaria la presenza di tre requisiti:
Il protrarsi nel tempo di comportamenti;
Che non siano il prodotto di specifici vincoli contrattuali, deve trattarsi di un atto spontaneo del datore di lavoro;
Tali da avere natura continuativa e carattere generale. Ossia devono essere applicati nei confronti di tutti i dipendenti dell’azienda con lo stesso contenuto, salve eventuali differenziazioni, giustificate dalla diversità delle mansioni e qualifiche.
Possono essere qualificati come usi normativi?
L’art. 1, delle disposizioni sulla legge in generale annovera, tra le fonti del diritto gli usi. Si possono distinguere due categorie di usi:
quelli normativi, vere e proprie fonti del diritto;
quelli negoziali o interpretativi, mezzi di chiarimento della volontà delle parti contraenti.
La configurabilità di un uso normativo richiede la presenza di due requisiti:
uno di natura oggettiva, consistente nella uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento;
l’altro di natura soggettiva o psicologica, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica.
L’uso aziendale come precisato dalla sentenza della Cassazione, 25.7.2000, n. 9764, trova origine in un comportamento dell’imprenditore consistente nella attribuzione spontanea e per liberalità, a tutti i dipendenti (o solo a una cerchia di essi) di un trattamento non previsto né da contratto individuale, né dal contratto collettivo. Mancando nel datore di lavoro il convincimento della sussistenza di un obbligo, requisito soggettivo, l’uso aziendale non può essere qualificato come uso normativo.
Come possiamo inquadrarlo da un punto di vista giuridico?
Si sono succeduti nel tempo, tre diversi orientamenti:
Il primo orientamento, abbandonato dalla Cassazione, riconduceva gli usi aziendali nella categoria degli usi negoziali o di fatto, da considerarsi inseriti, ai sensi dell’art. 1340 c.c., quali clausole d’uso nel contratto individuale.
Questi usi, secondo la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, 17.3.1995, n. 3101, integravano il contenuto in senso modificativo o derogativo, purché in melius, della regolamentazione collettiva. Il comportamento delle parti diventava espressione di una volontà negoziale che, integrando attraverso l’art. 1340 c.c., i singoli contratti individuali, era insensibile alle successive modificazioni peggiorative dei contratti collettivi.
Questa impostazione comportava per quei lavoratori nei cui confronti l’uso si era formato, l’immodificabili in pejus da contrarie contrattazioni collettive, con conseguente esclusione da tali trattamenti migliorativi dei nuovi assunti.
Il secondo orientamento, considera l’uso aziendale quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.
Sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore, quelle più favorevoli dell’uso aziendale, a norma dell’art. 2077, secondo comma c.c., la Cassazione, attribuisce efficacia collettiva agli usi azienda equiparandoli ai trattamenti riconosciuti dai contratti collettivi aziendali. Questo fa perdere agli usi le garanzie di impermeabilità in pejus riconosciute dall’orientamento precedente, con conseguente revoca o sostituzione degli stessi ad opera di fonti collettive.
Il terzo ed ultimo orientamento, qualifica gli usi aziendali come fonti sociali, in quanto diretti a realizzare un’uniforme disciplina dei rapporti, con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda.
Caposaldo di tale orientamento è la sentenza della Cassazione Sezioni Unite, 13.12.2007, n. 26107 che afferma:
la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti integra di per se, gli estremi dell’uso aziendale, il quale in ragione della sua appartenenza al novero delle fonti sociali, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.
La giurisprudenza con questa pronuncia riconosce che gli usi aziendali sono soggetti a modificazioni, anche peggiorative dalle altre fonti sovraordinate, superiori rispetto agli usi, quali i contratti aziendali e nazionali.
Normativa di riferimento: art.1 disposizioni sulla legge in generale, art. 1340 c.c., art. 2077c.c..
Giurisprudenza: Cass. 12.6.1963, n. 1572, Cass. 11.11.1999, n. 12507, Cass. 11.11.1999, n. 12507, Cass. 21.11.1983, n. 6948, Cass. Sez. Un. 17.3.1995, n. 3101, Cass. 11.8.2000, n. 10642, Cass. 11.3.2010, n. 5882, Cass. Sez. Un. 13.12.2007, n. 26107.