La flessibilità complessa

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Giampiero Falasca

(articolo estratto dallo speciale “Il diritto del lavoro”, oggi in edicola con Il Sole 24 Ore)

Tanta flessibilità, ma troppo complessa e in continuo cambiamento. Questo il risultato complessivo che ha prodotto, nel nostro paese, un decennio di riforme legislative incessanti, che hanno rovistato da cima a fondo il diritto del lavoro italiano. La legge Biagi, approvata nel 2003, ha sicuramente rotto il tabù, anche culturale, del lavoro flessibile, portando a compimento quel lavoro avviato con successo qualche anno prima col pacchetto Treu e delineato con grande progettualità nel Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001. Con la riforma Biagi hanno fatto ingresso nel nostro ordinamento contratti di lavoro capaci di dare un grado di flessibilità impensabile solo qualche anno prima: il lavoro intermittente, il lavoro accessorio, il nuovo part time, la somministrazione di personale “ordinaria” e lo staff leasing, ma anche il contratto a termine riformato poco prima, hanno portato aria fresca dentro un sistema di regole vecchio e asfittico. Con la legge Biagi, inoltre, sono stati razionalizzati in maniera importante altri istituti, come l’apprendistato e il contratto di formazione e lavoro, sostituito dal contratto di inserimento (poi ingiustamente abrogato), e la collaborazione coordinata e continuativa, trasformata in lavoro a progetto con lo scopo di frenare gli abusi. Nonostante il grande sforzo compiuto da questa riforma, a distanza di un decennio il mercato del lavoro soffre ancora di una mancanza di flessibilità, da un lato, e di un ricorso eccessivo ai contratti irregolari, dall’altro. Come è possibile che ci troviamo in questa situazione? I motivi sono, essenzialmente, due. Le regole della legge Biagi si sono rivelate troppo complesse, minuziose e suscettibili di essere interpretate in diverse maniera. Di conseguenza, la loro applicazione è risultata difficile ed ha creato notevoli incidenti di percorso (eclatante il caso dell’apprendistato, sfociato in diversi contenziosi anche costituzionali, ma anche quello della somministrazione, investita da un contenzioso interpretativo rilevante, come peraltro il contratto a termine). La legislazione successiva non ha migliorato questo stato di cose ma, anzi, la complessità delle regole è aumentata. Un esempio di questo problema lo troviamo nella disciplina del lavoro a progetto; rispetto alle regole contenute della legge Biagi, la riforma Fornero del 2012 ha introdotto norme ancora più pesanti da applicare, creando le basi per una nuova stagione di contenzioso interpretativo. Questo percorso di complessità non è stato invertito o frenato dal decreto Giovannini del mese di giugno scorso, nonostante le grandi attese di semplificazione (su alcuni grandi temi come la causale dei contratti a termine) che si erano create intorno al provvedimento. Il decreto ha fatto piccoli interventi di aggiustamento, ma non ha provato a modificare l’architettura complessiva di un sistema che era, ed è rimasto, troppo complicato.

Proprio l’emanazione del decreto Giovannini conferma l’ulteriore problema che ha investito il diritto del lavoro dell’ultimo decennio: l’incessante produzione normativa. Il mancato impatto positivo delle riforme determina una insoddisfazione diffusa tra le imprese e nel mercato del lavoro, che genera, a sua volta, una domanda di cambiamento delle regole, anche di quelle appena approvate. Ogni Ministro (ed ogni maggioranza parlamentare) prova a dare risposta a questa domanda, progettando nuove riforme, con la conseguenza che non si fa in tempo a digerire le nuove regole che queste cambiano. E’ accaduto per l’apprendistato, semplificato nel 2011 ma  ancora fermo al palo per una frenesia legislativa eccessiva che spiazza il mercato, e si è verificato in maniera marcata su tutti gli  altri contratti flessibili, dal contratto a termine a quelli più marginali (si pensi al numero incredibile di modifiche apportate al lavoro intermittente o al lavoro accessorio).

Questi problemi sono accentuati da una carenza strutturale del nostro sistema: non esistono strumenti capaci di misurare l’efficacia nel breve, nel medio e nel lungo periodo delle riforme. Abbondano le analisi su singoli temi, ma non esiste ancora (nonostante sia invocate in numerose leggi) un sistema di monitoraggio strutturale in grado di darci conferma degli esiti occupazionali dei vari interventi normativi.

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