Demansionamento per crisi: quando è ammesso

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Il demansionamento unilaterale del dipendente, disposto a seguito di un riassetto organizzativo, non è giustificabile neanche se è finalizzato ad evitare misure più drastiche quale il licenziamento del lavoratore. Questo il principio affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 21356 emessa il 18 giugno scorso (ma depositata ieri): la pronuncia va letta con attenzione, onde evitare pericolosi equivoci rispetto ad alcuni principi ormai consolidati in materia, che non vengono messi in discussione dalla decisione. Nella vicenda decisa dalla Corte, un datore di lavoro aveva soppresso una divisione aziendale ed aveva spostato a nuove mansioni un dipendente addetto al ramo soppresso, senza chiedere il suo assenso. Le nuove mansioni erano nettamente inferiori a quelle precedenti, ma l’azienda riteneva di aver agito correttamente in quanto, mediante tale assegnazione, aveva potuto evitare il licenziamento del dipendente. La Corte ritiene invece illegittimo il comportamento dell’azienda, ricordando che l’art. 2103 del codice civile consente il mutamento unilaterale di mansioni, ma pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di assegnare il dipendente a compiti equivalenti con il livello di inquadramento e la professionalità acquisita. Questo obbligo, osserva la Corte, non può essere derogato neanche se il cambio di mansioni ha la finalità di evitare il licenziamento. Tale pronuncia, come detto, deve essere letta correttamente, in quanto rischia di creare equivoci. La sentenza, infatti, ribadisce un principio pacifico, secondo il quale il divieto di demansionamento posto dall’art. 2103 del codice civile non può essere derogato dal datore di lavoro in maniera unilaterale neanche se viene perseguito lo scopo di salvare il posto di lavoro. Paradossalmente, ma neanche tanto, questo vuol dire che a fronte di una soppressione di posizione lavorativa, se non esistono mansioni equivalenti da affidare al dipendente, l’azienda lo può licenziare mentre non lo può demansionare. Quello che non dice la sentenza, ma solo perchè questo punto esula dal tema della controversia decisa dalla Corte, è che la questione cambia se il dipendente accetta il demansionamento. In questa ipotesi, subentra un principio diverso, creato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, in virtù del quale il demansionamento finalizzato a salvare il posto di lavoro diventa possibile se c’è il consenso del lavoratore. La giurisprudenza ha anche fissato le condizioni affinchè il patto sia valido. In primo luogo, il demansionamento deve costituire la sola ed unica alternativa al licenziamento. Inoltre, il datore di lavoro è tenuto a verificare l’impossibilità di collocazione del dipendente in mansioni equivalenti. Infine, il lavoratore deve aver dato il proprio consenso a ricoprire le nuove (e inferiori) mansioni. Se ci sono queste condizioni, allora il patto tra l’azienda e il lavoratore sfugge alla rigida sanzione della nullità fissata dal codice civile.

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