Le regole delle relazioni industriali (Tiziano Treu)

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Tiziano Treu

Quattro intese confederali sulle regole.
Dopo quasi 20 anni di impasse, o di inerzia, nel tormentato scenario delle relazioni industriali italiane, i loro attori, soprattutto i sindacati, si sono impegnati intensamente a darsi delle regole. Era dal famoso accordo del 1993 che i tentativi andavano a vuoto. Le poche incerte regole a cui si faceva riferimento erano sempre quelle dello stesso accordo del 93. Ora dall’accordo del 2009, anzi dal documento unitario del maggio 2008 su democrazia e rappresentanza, al 2013 si sono succedute ben quattro intese confederali, tutte concentrate sui punti da sempre critici del nostro sistema di RI; i criteri di misura della rappresentanza sindacale, i rapporti fra livelli contrattuali, in particolare fra contratto nazionale e contrattazione decentrata, le regole per la formazione dei contratti collettivi, specie in caso di contrasto fra sindacati, e l’efficacia degli stessi contratti.
Le aree tematiche affrontate da queste intese sono le medesime, ma le modalità con cui vengono affrontate e le soluzioni raggiunte presentano varianti non da poco. Sono diverse anche le parti contraenti, sul versante sindacale e su quello datoriale. Cambia la posizione della Cgil che è dissenziente nell’accordo del 2009 e nel documento sulla produttività del 2012, entrambe quindi sono intese “separate”; invece partecipa ed è firmataria degli accordi del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013. Sul versante datoriale il protagonismo della Confindustria non trova sempre riscontro da parte delle altre confederazioni che sono meno coinvolte nonostante il peso della loro aggregazione in Rete imprese Italia, e prendono le distanze o tardano ad aderire; così è anche dell’accordo più recente del 2013.
I motivi di queste diverse posizioni non sono sempre evidenti, neppure a chi segue da vicino le vicende sindacali. Sembrano riflettere non solo (o non tanto) dissensi di merito, quanto spesso logiche di posizionamento tattico. Certo è che denotano la difficoltà delle parti di trovare soluzioni stabili, se non definitive; e rivelano la presenza sotto traccia di molti punti ambigui e di non detti.
Del resto il disorientamento e la scarsa lucidità di visione costituiscono la cifra comune anche dell’attuale contesto istituzionale e legislativo, che circonda il sistema delle RI e che inevitabilmente lo condiziona, ben diversa era la situazione del 1993, segnata da un governo solido ancorchè di emergenza e da parti sociali consapevoli della gravità della crisi e capaci di reagire con un accordo di grande respiro costituzionale, ancorchè basato su principi bisognosi di non poche specificazioni.
I tentativi attuali delle parti sociali intervengono dopo un “decennio perduto” per l’economia e per la società italiana, in una crisi più lunga e profonda di tutte le precedenti, e in un quadro istituzionale – legislativo non positivo, a dir poco, per le relazioni industriali_ e per il paese. Anche senza indulgere nelle lamentazioni o nel catastrofismo di certi commentatori, è un fatto che la legislazione dei governi di centro destra ha contribuito all’indebolimento se non alla destrutturazione del sistema contrattuale_ e al ridimensionamento del ruolo del sindacato come attore_ non solo contrattuale ma istituzionale.
Sono significativi i limiti posti all’interlocuzione del sindacato con il governo nella elaborazione delle politiche pubbliche in materia di lavoro, emblematizzati dalla variazione linguistica del termine concertazione a quello di dialogo sociale. Il governo tecnico di Monti non ha mostrato di voler ripristinare uno statuto forte dell’interlocuzione sindacale, al di là delle modalità dell’approccio più soft e meno “divisiva” di quello precedente_. D’altra parte ha evitato la tentazione di intervenire nelle RI. Mentre la normativa sul mercato del lavoro (legge 92/2012) se non ha mostrato di assecondare possibili tendenze alla de regolazione, ha portato a risultati incerti e poco apprezzati da entrambe le parti_. Tanto è vero che è stata fatta oggetto di ulteriori aggiustamenti dal governo Letta con il decreto 76/2013, ora legge 99/2013, anch’esso introdotto sulla base non di una concertazione di tipo tradizionale, bensì di interlocuzioni informali di varia intensità e influenza. In questo contesto istituzionale e politico debole è comprensibile che le parti, in primis i sindacati, si siano concentrati sui temi loro propri e da tempo critici come le regole che presidiano ai loro rapporti e alla loro stessa identità.
La carenza di tali regole come è noto è un unicum del nostro sistema nel contesto europeo ed è divenuta sempre più insostenibile per i fattori sopra indicati: contesto istituzionale non favorevole, pressioni economiche e normative che operano per l’indebolimento del sistema, e il riacutizzarsi delle tensioni fra le maggiori confederazioni. La scelta di reagire alla crisi su questo terreno è un segno positivo di consapevolezza e di utilità del nostro movimento sindacale. Ma non per questo è risultato meno tormentato e percorso da minori incertezze.
Concentro le mie riflessioni sull’accordo più recente, quello del 31 maggio 2013, sia pure tenendo conto dei precedenti cui per vari aspetti l’intesa continua a riferirsi, come è stato del resto per quella del 2011, di cui l’accordo del 31 maggio costituisce un completamento_.

L’intesa del 31 maggio 2013: punto d’arrivo o punto intermedio?
L’intesa del 31 maggio è stata definita una svolta storica, non solo dai firmatari ma da molti commentatori. In realtà giudizi analoghi erano stati espressi rispetto all’intesa del 2011 perché sembrava sanare dissensi profondi fra le maggiori confederazioni, reagendo a condizioni difficili con una unità che appariva impossibile. Inoltre l’intesa del 2011 ha dato risposte nuove a molti nodi fino allora irrisolti del sistema contrattuale_; i criteri di misurazione della rappresentanza nazionale dei sindacati, coordinamento fra i livelli contrattuali, la possibilità e i limiti delle clausole di deroga (un tema scoppiato non solo in Italia sotto la pressione della crisi), le clausole di tregua volte a garantire la esigibilità dei contratti aziendali, la efficacia dei contratti aziendali (con la sanzione del principio di maggioranza, fino allora non riconosciuto esplicitamente nel nostro sistema sindacale). Gli eventi successivi all’intesa hanno dato qualche conferma alla ritrovata unità, in particolare per il fatto che i rinnovi dei maggiori contratti nazionali di categoria si sono susseguiti con una certa regolarità senza grandi conflitti e unitariamente, con l’eccezione del contratto dei metalmeccanici. Hanno presentato alcune variazioni nei contenuti economici, ma senza stravolgere le linee guida dell’accordo del 2009_, che peraltro si è sempre evitato di menzionare con una preterizione non infrequente. In tal modo al contratto nazionale è stato riconfermato il ruolo di strumento centrale del sistema per la tutela del potere d’acquisto e per la definizione delle regole base, valide per tutta la categoria. Non hanno avuto invece seguito i presupposti indicati nello stesso accordo del 2009 di sfoltire il numero pletorico dei contratti e di alleggerirne i contenuti per lasciare spazio alla contrattazione decentrata.
D’altra parte l’accordo del 2011 non affrontava altri aspetti critici del sistema: da un parte le modalità di conclusione e le condizioni di efficacia del contratto nazionale, temi fino ad allora evitati dalle parti sia per l’incombente presenza dell’art.39 della Costituzione sia per le difficoltà di comporre le situazioni di dissenso reiteratesi nel periodo; dall’altra parte le condizioni di effettività delle regole sui rapporti fra livelli e sulle clausole di tregua (in primis le sanzioni per la violazione degli impegni presi). L’accordo del 31 maggio interviene, sia pure con grande ritardo, a integrare l’intesa del 2011 e a definire aspetti applicativi rimasti non specificati in quell’intesa. Per questi motivi si può ritenere che esso rappresenti, soprattutto per il sindacato, il punto di “arrivo”, o almeno un punto fermo intermedio_, di quel percorso circolare di intese confederali, cominciato nel 2009.
Ma è altrettanto vero che l’accordo costituisce anche un punto di partenza, in quanto per diventare operativo richiede ulteriori regole di dettaglio, ma alquanto rilevanti, affidate alla contrattazione nazionale dei singoli settori, oltre che convenzioni con gli enti certificatori della rappresentatività sindacale (Inps e Cnel)_. In realtà anche questa volta il test dell’accordo va oltre le più importanti questioni applicative; dipende dalla tenuta del consenso manifestato dalle confederazioni su punti che rappresentano una vera e propria discontinuità con il passato.
La tenuta non è scontata per fattori sia esterni sia interni al sistema: da un parte per il peso della congiuntura economica negativa che non facilita unità e coesione_, contrariamente alla speranza di molti, e per un contesto istituzionale turbolento; dall’altra parte perché la capacità di attuare le innovazioni concordate nelle regole delle RI richiede una parallela volontà innovativa nei comportamenti unitari nelle strategie e nelle dinamiche sindacali.
Per questo ribadisco un giudizio già espresso a proposito dell’accordo precedente: che la cautela delle previsioni è d’obbligo.

Le novità dell’accordo rispetto al sistema storico delle Relazioni Industriali.
Le novità introdotte dall’accordo del 2013 sono di diversa portata. Alcune servono a puntualizzare i criteri definiti nell’accordo del 2011. Anzitutto con la regola, ripresa dal pubblico impiego, secondo cui la titolarità della contrattazione collettiva nazionale spetta alle organizzazioni sindacali che raggiungono almeno il 5% di rappresentatività misurata come media semplice fra la percentuale degli iscritti, sulla totalità degli iscritti e la percentuale di voti ottenuti nelle elezioni delle RSU sul totale dei votanti. Tralascio di approfondire le questioni interpretative relative a questa complessa formula di calcolo, niente affatto di poco conto_. Sottolineo invece l’importanza, anzi la radicalità, dell’innovazione introdotta nella configurazione delle rappresentanze aziendali, cioè il fatto che queste sono elette, in prospettiva, con voto proporzionale superando la quota del terzo destinata fin dall’accordo del 1993 alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto nazionale applicato all’unità produttiva. L’innovazione è confermata e rafforzata dall’impegno delle parti a rinnovare entro 6 mesi le RSU scadute e a non costituire più RSA; ma non mancano anche qui incertezze circa l’operatività di tale impegno_.
Essa configura una vera e propria innovazione di sistema, in quanto realizza un’alterazione dell’assetto fondamentale delle nostre RI e incide sulle stesse radici identitarie del sindacato, quali configuratesi in tutta la nostra tradizione_.
Se nella misurazione della rappresentatività nazionale dei sindacati si combina il criterio associativo con quello elettivo, confermando la mediazione fra i due orientamenti storicamente presenti nel nostro sindacalismo, nella formazione delle rappresentanze aziendali prevale il secondo criterio, dato che scompare ogni riserva al sindacato associazione e resta operante il solo criterio elettivo. La convivenza dei due criteri ritorna per la validità dei contratti nazionali, in quanto essa è sottoposta a un doppio controllo di maggioranza: il 50% più uno delle organizzazioni sindacali e la maggioranza (semplice) dei lavoratori chiamati ad approvare il contratto.
La discontinuità è così netta rispetto alle concezioni sindacali esistenti e alle prassi storiche (dopo le commissioni interne) che non sorprende la presenza, nello stesso accordo, di una clausola di garanzia o di sospensione: quella secondo cui il passaggio alle elezioni delle RSU potrà avvenire sole se definito unitariamente dalle federazioni aderenti alle confederazioni firmatarie dell’accordo. Ciò significa che le categorie che finora hanno mantenuto le RSA, nonostante i propositi di superarle reiterati da parte delle confederazioni, non potranno essere costrette a sostituirle con RSU. La scelta dell’accordo si avvicina ai modelli prevalenti in Europa che privilegiano in azienda rappresentanze elettive, non associative e non strettamente sindacali; anche se i sindacati hanno diritto di presenza nei luoghi di lavoro ed esercitano la loro influenza sulle elezioni dei consigli elettivi. Ma in quei paesi la presenza e la costituzione di tali rappresentanze sono sancite per legge, mentre da noi si fa ricorso ancora una volta alla contrattazione. Il nostro accordo contiene un ulteriore rinvio, non nuovo e non l’unico, che lascia aperti tempi ed esiti per la implementazione di questa radicale novità. Tempi ed esiti dipendono dalle stesse parti, ma nella variegata configurazione categoriale, non sempre governata dalle confederazioni, alle quali come è noto non è riconosciuto il potere di vincolarla direttamente con i loro accordi le federazioni aderenti_. La criticità del tema potrebbe acutizzarsi qualora il legislatore si decidesse a dettare una nuova disciplina dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori, dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale (231 del 2013).
Ma proprio per la presenza di questioni irrisolte e rinviate dalle parti è difficile che l’attuale legislatore, già restio a intervenire in queste materie, voglia spingersi fino a regolare i criteri di composizione delle rappresentanze, che sono l’aspetto più gelosamente custodito dall’autonomia sindacale.

Le novità introdotte dall’accordo rispetto al sistema costituzionale.
Le novità introdotte dall’accordo sono nette rispetto non solo alle tradizioni sindacali, ma altrettanto riguardo all’impianto costituzionale dell’art. 39, 4° comma della Cost. che riconduce l’efficacia erga omnes dei contratti nazionali alla decisione dei sindacati unitariamente rappresentati in proporzione di soli iscritti. Entrambe le regole, quella della rappresentanza calcolata sulle medie di iscritti e votanti e ancora più quella delle RSU esclusivamente elettive, si collocano in un contesto delle RI e della contrattazione ormai così lontano dalle ipotesi costituzionali da confermarne la storica irrilevanza.
Un’altra duplice novità introdotta dagli accordi del 2011 e del 2013 riguarda i meccanismi di formazione e di perfezionamento dei contratti collettivi. Nel 2013 le parti si sono avventurati oltre l’area del contratto aziendale e hanno affrontato direttamente il tema dell’erga omnes anche in riferimento ai contratti nazionali, a riprova della possibilità di eludere le regole dell’art. 39 Cost.
La prima novità è la sanzione generale del principio di maggioranza per la validità dei contratti collettivi. L’applicazione di tale principio in materia sindacale non è per niente pacifico, a differenza di quanto vale per il sistema politico: anzi è stato contestato in radice nella tradizione dei sindacati più contrattualisti, non solo italiani. Nella democrazia rappresentativa tale principio presuppone il consenso sul quadro di riferimento, cioè il sistema parlamentare con le sue regole sull’ambito e sul sistema di calcolo dei voti. Tale quadro può essere controverso nelle scelte sindacali, come è stato e in parte è tuttora, nella nostra storia; cosi è stato, ad es., a proposito dei livelli contrattuali, centrali o decentrati da privilegiare, e dei confini delle categorie.
Anche i confini delle categorie cui si deve applicare il calcolo della maggioranza, come della rappresentatività, sono mobili_, a motivo delle trasformazioni del sistema produttivo e di possibili controversie giurisdizionali fra sindacati che punteggiano la storia del sindacalismo, invero in altri paesi più che da noi. Queste diversità del quadro di riferimento influiscono direttamente sui contenuti e sulle strategie dei sindacati. Proprio questo spiega le difficoltà ad applicare il principio di maggioranza e le resistenze ad accettarlo.
Basta questo rilievo per non sottovalutare le difficoltà che si prospettano nell’implementazione di una simile scelta. Tanto più che la decisione delle parti di sancire per accordo la validità delle regole di maggioranza rappresenta, che io sappia, una particolarità tutta italiana. In altri paesi dove vige il pluralismo sindacale tale regola è stata sancita per legge, così imponendone il rispetto alle parti. Averla affidata all’autoregolazione è una scommessa “audace” dei nostri sindacati, coerente con la loro tradizione autonomista. Si tratta di una scommessa perché la tenuta del principio è affidata alla capacità rappresentativa e all’autorevolezza delle stesse parti, come è per l’efficacia dei contratti collettivi. La conclusione a maggioranza dei contratti ne rafforza l’autorevolezza e l’esigibilità, ma solo fra le parti stipulanti. L’efficacia erga omnes dell’accordo del 2013 in tutte le sue parti, compresi gli impegni a darvi applicazione coerente e a non adottare azioni contrastanti, può essere attribuita solo dalla legge. Il consenso sul principio di maggioranza costituisce un deterrente contro la prassi dei contratti separati e può risolvere parte delle controversie da essa originate; ma anche qui la sua effettività coincide con l’ambito di influenza delle associazioni contraenti.
Come è noto, la legge non è intervenuta finora ad attribuire efficacia generale ai contratti nazionali e le stesse parti sociali non hanno provato a forzare il legislatore. L’art. 8 della legge 148/2011 ha attribuito effetti erga omnes agli accordi di secondo livello, conclusi secondo il principio di maggioranza, ritenendo superabile l’ostacolo dell’art. 39 della Cost. Ammesso che l’art. 39 sia eludibile per gli accordi aziendali, come sostenuto da parte della dottrina, che peraltro aveva in mente i tradizionali “accordi acquisitivi”, è dubbio che sia così per i contratti territoriali, per cui valgono le stesse obiezioni desumibili dall’art. 39_.
In ogni caso tali scelte confederali, specie quelle dell’accordo del 2013, rendono problematiche le possibilità e le modalità con cui conciliare i poteri contrattuali delle rappresentanze aziendali con quelli dei sindacati territoriali e nazionali. In capo a questi si sono sempre mantenuti poteri di intervento negoziale e di controllo sui negoziati aziendali al fine di garantire una coesione del sistema contrattuale. La necessità di governare tensioni centrifughe presenti in tutti i sistemi contrattuali, non solo italiani, spiega come i recenti accordi confederali abbiano riaffermato l’importanza di controlli centrali sulla contrattazione aziendale, specie in deroga. Ma in Italia, a differenza che negli altri paesi, anche il governo centrale della contrattazione aziendale è affidato a regole dello stesso sistema contrattuale, con i già ricordati problemi di tenuta ed effettività.
Per di più a seguito della nuova configurazione delle RSU viene meno il raccordo soggettivo_ fra il sistema sindacale dell’azienda e quello nazionale, che nelle tradizioni si univa al raccordo oggettivo costituito dalle clausole di rinvio per cercare di governare il precario assetto della nostra struttura contrattuale.
Resta da vedere se la coraggiosa definizione per via contrattuale delle regole sulla rappresentatività, sulla formazione e sulla struttura della contrattazione avrà l’effetto di stimolare il legislatore ad intervenire in argomento. Una risposta positiva potrebbe essere suggerita dalle esperienze passate, avallate dalla dottrina, che registrano interventi legislativi propiziati da conformi soluzioni contrattuali. Ma questa valutazione sconta una coerenza armonica fra quadro costituzionale e orientamenti del sistema sindacale, talora presente in passato, ma oggi incerta se non assente. Per di più la materia attuale riguardante i rapporti fra i sindacati e le loro organizzazioni è molto più “sensibile” e reattiva a interventi esterni dei temi tradizionali della legislazione di sostegno. Infatti le parti, specie sindacali, si sono impegnate a definire fra di loro le questioni lasciate aperte dalle intese confederali e sembrano, almeno per ora, poco inclini a sollecitare l’intervento legislativo.
Qui una traduzione in legge degli orientamenti confederali non potrebbe essere automatica. Anzitutto perché l’accordo concluso fra sindacati e Confindustria deve ancora passare il test della sua estensione alle altre organizzazioni datoriali, anche e soprattutto per il fatto che un intervento legislativo, oltre a presentare dubbi di costituzionalità (vedi oltre), accentuerebbe le questioni irrisolte fra le parti. Si pensi in primis alla configurazione elettiva delle RSU, che, se confermata legislativamente, renderebbe irreversibile una scelta ancora non acquisita da molte categorie sindacali. E si richiederebbe una riconsiderazione dei diritti dei sindacati nelle unità produttive e delle loro prerogative rispetto alle stesse RSU_. Così è nei paesi europei che hanno adottato il doppio canale di rappresentanza collettiva in azienda: una scelta finora esorcizzata dai sindacati italiani e a mio avviso sempre meno producente.
Ad esempio il legislatore dovrebbe decidere se limitarsi a riconoscere il diritto dei lavoratori a costituire le RSU stabilendo la titolarità dell’iniziativa, le sue modalità e i diritti ad essa strumentali, ovvero, se prevedere come necessaria la presenza di queste rappresentanze, come avviene in altri paesi, Germania in primis, almeno nelle aziende superiori ad una certa dimensione. L’obbligo legale di presenza riguarda in quei paesi le sole rappresentanze elettive e non le organizzazioni sindacali, la cui costituzione e funzionamento in azienda restano affidate alla loro libera capacità di iniziativa. Tale scelta ha contribuito al rafforzamento delle rappresentanze dei lavoratori e alla loro diffusione nelle piccole aziende: ma indirettamente anche al sostegno del sindacato laddove questo è riuscito a incidere sulla formazione e sulla vita delle rappresentanze elettive. Le vicende applicative dell’accordo del 31 maggio, le sue fortune (auspicabili) o ulteriori battute d’arresto saranno rivelatrici dello stato di salute delle nostre RI e incideranno anche sui possibili sviluppi degli interventi legislativi.

Le novità e i dubbi della decisione 231/2013 della Corte Costituzionale.
La recente sentenza della Corte Costituzionale (231/2013) che ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori ha introdotto una novità rilevante anche per la definizione di tali questioni e per un eventuale intervento legislativo in materia. E’ significativo che la decisione sia presentata dalla Corte come evolutiva rispetto alla propria precedente giurisprudenza_, e giustificata dal cambiamento del contesto. In passato, come è noto, la Corte aveva salvato la norma correggendola in senso sostanziale, cioè richiedendo che per abilitare il sindacato ai diritti dell’ex art.19 non bastasse il requisito formale della firma del contratto ma occorresse anche la partecipazione effettiva alle trattative. In tal modo si escludeva che potessero essere rappresentativi ai sensi della norma sindacati che si limitassero a firmare per adesione, ma non sufficientemente autorevoli per giocare un ruolo attivo nella contrattazione. Ora il cambio del contesto, cioè dei rapporti fra i sindacati e con la controparte, è tale da incidere sul senso stesso dei criteri di selezione dei sindacati rappresentativi. Nel caso concreto era in questione non la scelta di riconoscere ex art. 19 qualche sindacato minore, ma il diritto ad essere presente in azienda di un sindacato come la Fiom sicuramente rappresentativo, sia per iscritti sia per forza elettorale. Di qui la decisione della Corte che occorra tener conto di tale diverso contesto e ripensare anche la configurazione del criterio selettivo previsto dalla norma.
Il che conferma quanto, soprattutto nella nostra materia, la realtà sottostante ai rapporti giuridici influisca sulla loro configurazione normativa. Se nelle precedenti decisioni la Corte aveva corretto il requisito formale della norma, la firma del contratto, trasformandolo in un requisito misto formale e sostanziale, firma e partecipazione alle trattative, oggi la Corte fa un altro passo verso l’impostazione sostanzialistica, in quanto ritiene sufficiente la partecipazione alle trattative, anche se manca la firma, come appunto è il caso della Fiom in rapporto con la Fiat. Si tratta di un intervento correttivo non da poco, che la Corte decide di operare per evitare conseguenze contrarie al principio di libertà sindacale, inteso anche esso nel suo rilievo effettivo; e esiti persino paradossali. Nel caso limite menzionato dalla Corte, in cui in azienda si arrivasse alla firma di un contratto con nessuno dei sindacati pur esistenti, in assenza di tale correttivo non si avrebbe nessuna organizzazione ammessa a godere dei diritti sindacali. E la stessa Corte afferma che un simile intervento correttivo, necessario per ridare razionalità costituzionale al sistema, rientra nei propri poteri di supremo giudice delle leggi, mentre non può essere operato da un giudice di merito (come viceversa hanno ritenuto alcune decisioni)_.
La decisione lascia aperte questioni non da poco, già rilevate dai primi commentatori. A cominciare dal significato di “partecipazione al negoziato”, concetto più labile di quello di “firmatario di contratto collettivo” e anzi potenzialmente ambiguo, se è vero che “la firma del contratto è rilevante non solo sul piano civil contrattualistico, ma anche sul piano delle RI perché è indicativa di una qualità del sindacato di notevole importanza, relativa alla capacità di mediare per a necessità di pervenire a un accordo_”. Questo punto conferma come la questione della rappresentatività resti priva di soluzioni affidabili anche dopo le indicazioni dell’accordo del 2013. La stessa Corte Cost. rileva la necessità di chiare risposte, più comprensive, a tutto tondo, che competono solo all’intervento legislativo e fornisce una molteplicità di ipotesi di risoluzione. Queste possono essere diverse non solo nel merito, ma anche nell’ampiezza dei contenuti.
Una pluralità di opzioni si prospetterebbe anche per l’intervento di sostegno menzionato espressamente dalla Corte che si voglia rifare alle indicazioni degli accordi confederali. Lo si vede dalla varietà di posizioni emergenti al riguardo nelle proposte di legge non da oggi presenti in parlamento.

Pro e contro di un intervento legislativo.
Inoltre le cautele e le resistenze provenienti soprattutto dalle parti sociali rendono tutt’altro che agevole la strada per un simile intervento_. I commenti più cauti rilevano la portata contraddittoria di una legge in materia: avrebbe l’effetto positivo di consacrare sul piano normativo la raggiunta interna coesione del sistema contrattuale, ma all’opposto la conseguenza di irrigidire il sistema. I rischi e le obiezioni sarebbero accresciuti se il rinvio non si limitasse a definire criteri di rappresentatività del sindacato nazionale, di cui parla la Corte, ma si estendesse alle regole confederali riguardanti la struttura contrattuale e la efficacia dei contratti nazionali (come fanno alcuni ddl parlamentari).
Per quanto riguarda la struttura, una legificazione delle regole previste dagli accordi trasformerebbe il coordinamento affidato all’autorevolezza del sistema sindacale_, in una gerarchia decrescente dei contratti dal più generale al più specifico, con la conseguenza che le clausole decentrate contrastanti con tale gerarchia sarebbero nulle (al pari di quanto avviene nel pubblico impiego). Una simile conclusione assicura la massima coesione interna alla struttura contrattuale, ma appare una forzatura scarsamente praticabile nel nostro sistema che ha al suo interno deboli fondamenti di coerenza. Non a caso il sistema gerarchico ha mostrato difficoltà di funzionamento anche nel pubblico impiego_. Non c’è che da mantenere la scelta storica per cui la struttura contrattuale è materia di competenza delle parti.
Un intervento legislativo sull’efficacia dei contratti soprattutto nazionali si esporrebbe più di altri ai dubbi di compatibilità con la seconda parte dell’art. 39 Cost., per il motivo che questa norma, per quanto di fatto pretermessa, riconduce l’efficacia erga omnes ai contratti conclusi dai sindacati rappresentati in proporzione dei soli associati e non al criterio misto previsto dagli accordi_.
In realtà la distanza dalla norma costituzionale non può essere nascosta neppure per le regole dell’accordo relative alla misurazione della soglia minima di rappresentatività del sindacato_, agli effetti del godimento dei diritti sindacali. Infatti le analisi più rigorose ritengono, non da oggi, che una ricostruzione legislativa del sistema di RI sia da farsi solo modificando a monte l’art.39 Cost. seconda parte; e anche su questo non mancano proposte parlamentari. Ma il terreno su cui si muovono le regole della rappresentatività per il riconoscimento dei diritti sindacali e della presenza nell’unità produttiva è così eterogeneo rispetto a quello della negoziazione collettiva e dei suoi effetti, che si può sottrarre allo schema normativo dell’art. 39, seconda parte, come ha riconosciuto da tempo la Corte Cost. nel sancire la legittimità dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori_.
Per questo un intervento legislativo che intende essere utile per colmare una lacuna del nostro sistema di rappresentatività, integrando la decisione della Corte, e minimizzando i rischi politici e costituzionali, potrebbe muoversi lungo la linea suggerita dalla stessa decisione: cioè limitarsi a definire il requisito di rappresentatività dell’art. 19. La norma potrebbe riferirsi alle indicazioni dell’accordo del 2013 con diversi gradi di dettaglio. Potrebbe riprendere il suggerimento della Corte, che, sulla scia della propria argomentazione storica propone di attribuire al requisito dell’art. 19 il carattere di ricorso generale al sistema contrattuale e non al solo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva vigente (evitando così le anomalie manifestatesi in casi come quello della Fiat).
Un’altra ipotesi, in linea con la formula dello Statuto dei lavoratori, sarebbe di includere nel nuovo art. 19 (lett. a) le rappresentanze aziendali costituite nell’ambito delle organizzazioni sindacali da ritenersi comparativamente più rappresentative alla stregua dei criteri definiti negli accordi confederali vigenti.
La definizione delle regole della rappresentatività a partire in azienda è un contributo rilevante delle parti alla razionalizzazione del nostro sistema di RI; ed è particolarmente urgente che tali regole si consolidino nelle prassi, se possibile con il sostegno del legislatore.

Le regole sulla struttura della contrattazione collettiva.
Le regole della struttura contrattuale sono l’altro oggetto principale degli accordi confederali, anche esso fondamentale per il governo del sistema. Anche qui l’intervento confederale rappresenta un significativo contributo alla regolazione del sistema di fronte alle sfide della crisi, che ha proposto il tema del decentramento in termini nuovi. Ha posto in primo piano la negoziazione difensiva dell’esistente, cioè gli accordi di concessione e le clausole di deroga. Il contratto di categoria è rimasto centrale, ma con un ruolo diverso, quello di controllo delle deroghe a livello decentrato e di limitazione dei danni della negoziazione di concessione.
La gestione di questo assetto nel nuovo contesto si è rivelato controverso su entrambi i versanti. Una parte tradizionalmente prevalente di imprenditori, specie quelli piccoli, sembra privilegiare ancora il contratto nazionale per la sua funzione pacificatrice e di stabilizzazione dei costi ad un livello medio basso, che corrisponde alle convenienze di tutti, anche se per motivi diversi. Ma i dati disponibili, invero non completi segnalano una crescente insoddisfazione delle imprese più grandi per l’attuale sistema, soprattutto per le regole del contratto nazionale in materia di orario di lavoro, turni ed organizzazione del lavoro (quelle al centro della contesa Fiat risalgono al contratto dei metalmeccanici del 1971). E’ tale insofferenza che ha indotto la Fiat a premere per il superamento del contratto nazionale, anche se per ora non a uscire del tutto dal sistema contrattuale.
Gli esiti di queste tensioni interne a Confindustria sono difficili da prevedere, anche perché riflettono incertezze strategiche più ampie del mondo imprenditoriale, relative alle scelte economiche e ai rapporti con il potere pubblico, che sono divenuti incerti nel lungo periodo del centro destra e non si sono stabilizzati con il governo tecnico. Si tratta di elementi che segnalano una crisi di identità dell’associazione dei datori di lavoro, e che alimentano le incertezze del nostro fragile sistema di RI_.
Sul versante datoriale si è consumata una rottura senza precedenti provocata dall’uscita di Fiat da Confindustria. Sul versante sindacale le mediazioni fra le confederazioni nel periodo 2009 – 20013 si sono rivelate difficili, con risultati oscillanti e con tensioni spesso inaspettate, come quelle riscontrate in occasione delle linee guida sulla produttività del novembre 2012, non firmate dalla Cgil e ancora oggetto di contrastanti valutazioni. Un ostacolo alla conclusione unitaria nel 2012 riguardava la misura della rappresentatività sindacale. Superato questo problema, restano controversi e irrisolti aspetti non marginali riguardanti gli spazi aperti alla contrattazione decentrata in rapporto a quella nazionale e alle sue capacità di controllo in materia salariale. L’incertezza coinvolge ancora la funzione del CCNL come strumento per garantire il potere di acquisto e soprattutto le condizioni e i limiti operativi di questa garanzia a fronte di una contrattazione decentrata rafforzata, specialmente dei salari di produttività. Non a caso è ancora in discussione in principio (se non di fatto) la stessa applicazione dell’IPCA come criterio generale di governo delle dinamiche salariali nazionali. Come pure sono controverse le sorti della quota “aleatoria” legata a indicatori di produttività attribuibile al livello decentrato dall’intesa del novembre 2012, e quindi ancora la effettività della tutela dei salari_.
L’importanza e la delicatezza delle regole sul decentramento risultano dalle indicazioni nelle linee guida del novembre 2012 riprese anche dal DPCM 22 gennaio 2013, secondo cui la retribuzione di produttività agevolata può riferirsi non solo a specifici indicatori quantitativi di produttività/qualità/efficienza/innovazione, come era finora, ma anche alle voci negoziate in almeno tre delle seguenti aree di intervento: regimi di orari flessibili utili alla produttività; distribuzione flessibile delle ferie; misure che rendano compatibili l’uso di nuove tecnologie informatiche coni diritti fondamentali dei lavoratori (il riferimento è all’art.4 dello Statuto dei lavoratori sui cd “controlli a distanza”); interventi per la fungibilità delle mansioni.
Come si vede gli ambiti e le condizioni del decentramento contrattuale continuano a rappresentare un aspetto critico del sistema contrattuale, non solo in Italia. Tanto più che la spinta al decentramento è sostenuta da potenti fattori economici, quali la crescente competitività globale e le vertiginose innovazioni tecnologiche che sono gli stessi fattori i quali stanno mettendo in difficoltà la tenuta del sistema sindacale in tutto il mondo e che manifestano la loro massima influenza proprio a livello delle imprese dove le RI si confrontano più direttamente con le pressioni dei fattori esterni, competitivi e tecnologici. La criticità di questa situazione è tanto maggiore per il nostro sistema che è stato fino a ieri poco esposto alle sfide della competizione mondiale e per il nostro sindacalismo che ha sempre faticato, soprattutto la CGIL, a fare i conti con la produttività e il mercato.
Affrontare il tema dei limiti e del senso della contrattazione decentrata è dunque ben di più che una questione di tecnica contrattuale; riguarda la concezione e la funzione del sindacato nei sistemi capitalistici di mercato. Nel caso italiano la questione del decentramento assume tratti istituzionali specifici, in quanto ha trovato una regolazione alquanto singolare, anche nel contesto comparato, come l’art.8 della legge 148/2011. Questa norma contrasta con l’obiettivo di preservare un controllo sulla negoziazione di secondo livello, cioè di perseguire un decentramento organizzato, condiviso dal sindacato non solo italiano e dalle maggiori organizzazioni datoriali_. La regolazione confederale del 2012 conferma tale orientamento con una serie di cautele riflesse anche nella terminologia adottata. Si parla non di deroghe ma di “intese specifiche di articolazione contrattuale” da attuarsi nei limiti e con le procedure previste nei contratti nazionali. Non si riprende la condizione ancora più stringente contenuta nell’accordo del 2009 secondo cui le deroghe devono essere autorizzate dai contraenti nazionali_. In ogni caso questo tentativo di mantenere la contrattazione decentrata all’interno del sistema di contrattazione nazionale è affidato, come l’intero assetto regolatorio confederale, alla capacità di autogestione delle organizzazioni nazionali, confederali e di categoria. Oltretutto tale assetto regolatorio è sprovvisto di un sistema sanzionatorio adeguato, sempre differito soprattutto per le resistenze sindacali. Per altro verso resta improbabile, se non esclusa, la ipotesi di un sostegno del legislatore che dia efficacia reale alle clausole dei contratti nazionali su quelle dei contratti decentrati e alle direttive delle organizzazioni centrali.
Ripensare i rapporti fra parti sociali e governo.
Le luci e le ombre dei recenti interventi delle parti volti alla regolazione delle nostre Relazioni Industriali vanno giudicate, come si diceva, alla luce del contesto economico e istituzionale del paese. La possibilità di implementare e consolidare gli orientamenti innovativi espressi dalle confederazioni dipendono molto dalla coerenza e dalla unità delle stesse. Analogamente rilevante sarà il grado di coesione manifestato dalle parti datoriali ai vari livelli, da quello nazionale a quello aziendale. Queste hanno sempre ostacolato la prospettiva di promuovere forme partecipative dei lavoratori all’interno delle imprese, che potrebbero rafforzare l’unità di intenti e la coesione delle parti nel combattere la crisi.
Ma proprio per la congiuntura drammatica in cui si trova il paese, l’impegno delle parti non può essere sufficiente senza un azione di governo che lo sostenga non solo sul piano specifico delle Relazioni industriali, ma su quello generale dell’economia e della produttività del nostro sistema produttivo. Il rapporto fra parti sociali ed esecutivo su questo tema va ripensato facendo tesoro delle passate esperienze di concertazione e superandone i limiti. In ogni caso tale rapporto va orientato a obiettivi diversi e più impegnativi di quelli attribuiti ai patti sociali del 900: non solo alla stabilizzazione finanziaria, ma alla promozione delle condizioni per il superamento della crisi e per la ripresa dello sviluppo. Un progresso in queste direzioni costituirebbe un contesto favorevole anche per la creazione di un clima di fiducia fra le parti delle RI, che è necessario per consolidare le intese raggiunte sulle regole e per rafforzare la capacità delle stesse parti di implementarle in autonomia.

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