Treu: per il lavoro strutture, non norme

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Tiziano Treu

considerazioni finali del governatore di Bankitalia negli ultimi anni  hanno sempre rappresentato  tendenza e preoccupazioni di fondo delle società, oltre che dell’economia italiana.  Quelle di Ignazio Visco  non fanno eccezione. Sottolineano  con chiarezza le grandi trasformazioni  in atto nel mondo  e nel nostro paese; e l’impatto  che esse comportano per il nostro paese.

La preoccupazione  è evidente  e giustificata  laddove  si rileva   come la recessione in atto intacchi  profondamente  il potenziale  produttivo  e il reddito delle famiglie con il rischio di ripercuotersi sulla coesione sociale: un bene prezioso non solo per l’economia  ma per la vita civile  del paese. E Visco sottolinea  ancora come il cambiamento  di scenario abbia una portata storica  e quindi richieda  una capacità di risposta  altrettanto straordinaria.

Essere consapevoli di ciò  è una premessa  fondamentale  per  reagire adeguatamente alla sfida, “cosa che – secondo Visco –  non siamo stati capaci di fare”.

Ed è necessario per impostare correttamente anche il problema  dell’occupazione . Prima di proporre soluzioni specifiche  occorre  cogliere  le implicazioni  strutturali  del cambiamento  che investe l’intero sistema: dalle modalità di  accumulazione del capitale materiale e immateriale,  alle specializzazioni  produttive,  al sistema di istruzione, alle caratteristiche  del welfare, al funzionamento della PA, alla distribuzione  dei redditi, alle rendite  che sono incompatibili con il  nuovo contesto competitivo.

Quella di Visco  è una indicazione politica  in piena controcorrente con le idee  diffuse e propagandate  che pensano  di risolvere il problema occupazionale  con interventi di de regolazione (da destra) o di riregolazione (da sinistra).

Non a caso la relazione  contiene un approfondimento  sulle attività innovative  richieste al nostro paese  e in particolare alle nostre imprese; e sottolinea  che lo spostamento   delle attività dei settori di imprese declinati a quelli in espansione  richiede profondi cambiamenti nei rapporti di lavoro e nel  sistema dell’istruzione.

Le conseguenze  sono rilevantissime,  e anche qui mettono  in guardia  dai luoghi comuni. Cambia il mix occupazionale, per cui i giovani non potranno  pensare di rimpiazzare semplicemente gli anziani nei loro posti.

Occorre favorire la nascita e la crescita di imprese nuove per generare opportunità di impiego. La formazione professionale dovrà coprire l’ intera vita  lavorativa  caratterizzata dalla mobilità; ma per questo si dovranno  rafforzare i sistemi  di protezione pubblici e privati  nei periodi di inattività e di transizione. La scuola dovrà sostenere  questi processi, mirando ad accrescerne i livelli  di apprendimento e a sviluppare nuove competenze.

Queste indicazioni  segnalano tracce di  riforme fondamentali per il paese: talora proposte,  come quelle in tema  di formazione e di protezione sociale, ma poco attuali. Anche quelle approvate hanno tardato a operare,  perché sono mancati i provvedimenti  attuativi  e perché  non sono cambiati i comportamenti  dell’amministrazione.

Visco sa bene  che le riforme  di struttura richiedono  tempo, ma, ricorda che possono  essere attuate  in sequenza,   purché siano definite in un quadro complessivo; e che un programma credibile  può incidere da subito positivamente  sulle aspettative.

Questo è un suggerimento fondamentale, anche per  il governo Letta. La relazione ribadisce  che per quest’anno  non ci sono margini  di aumento del disavanzo, ma ritiene  che si debbano porre le condizioni  per sfruttare appieno  strumenti e agevolazioni  già previste  nell’ordinamento  all’ingresso e alla permanenza  da occupati  dei giovani nel mercato del lavoro.

E’ una indicazione  prudente – qualcuno l’ha ritenuta troppo prudente.  Ma  i margini  per utilizzare  meglio questi  strumenti ci sono e su questo punto si stanno attivando i ministri competenti. E’ da anni che si pensa di rendere più selettivi gli  incentivi  alle imprese e  all’occupazione  per evitare sprechi ed effetti di “spiazzamento”. Soprattutto è necessario rafforzare le politiche attive del lavoro sia migliorando e razionalizzando  l’organizzazione  dei servizi all’impiego. La soluzione  da tempo proposta e in esame anche all’attuale governo  è di attribuire entrambe le funzioni in capo alle Agenzie per l’impiego, rinnovate e potenziate, sul modello adottato nei maggiori paesi europei. Se non è possibile realizzare subito una completa unificazione delle funzioni in capo a una Agenzia, si può procedere per gradi, prevedendo un coordinamento, in forme da definire, fra centri per l’impiego e uffici decentrati dell’Inps. E’ anche possibile sperimentare soluzioni diverse nelle varie regioni, a seconda dello Stato delle loro organizzazioni. Molte regioni sono più avanzate di altre e possono fare da apripista.

Nel nostro sistema, dove le competenze in materia sono distribuite fra stato e regioni, è indispensabile una Agenzia federale, composta da un organismo statale e da un insieme di Agenzie regionali, con una distribuzione coerente di compiti.

Il successo delle politiche attive dipende non solo dalla normativa, ma soprattutto dall’organizzazione e dagli investimenti in risorse umane. Altri paesi hanno dedicato numeri consistenti (qualche migliaio) di persone qualificate alla youth guarantee. Noi non possiamo assumere nuovi dipendenti pubblici, ma si potrebbe destinare quota delle migliaia dei dipendenti in mobilità, previo addestramento, a fare i tutor dei giovani, sia  raccordandoli  con la gestione  degli ammortizzatori sociali. I cambiamenti continui del sistema produttivo  e del lavoro, di cui parla Visco,  richiedono  strumenti  non solo di sostegno passivo al reddito ma di riqualificazione  e  ricollocazione dei lavoratori. Entrambi questi strumenti sono carenti  e sono  fra i punti dove l’attuazione  delle riforme  è più urgente.  Politiche di formazione e di riqualificazione sono urgenti anche per evitare che la  crescita sia “priva di lavoro”.

Tutte le esperienze  confermano che non basta prevedere incentivi economici per chi assume giovani, ma serve un’organizzazione che li prenda in carico, che li assista con servizi personalizzati e che sia stimolata a farlo con opportuni incentivi: ad esempio, come si è sperimentato in alcune regioni italiane, con contributi rapportati ai giovani collocati al lavoro.

Per sostenere l’occupazione Visco richiama  la necessità  anche di una riduzione  selettiva  delle imposte che privilegi  il lavoro e la produzione, perché “il cuneo fiscale  che grava sul lavoro  frena  l’occupazione e l’attività di impresa”. Questo è un obiettivo  da  tempo perseguito  senza grandi risultati. Dovrebbe essere  una priorità  anche per il governo Letta; ma il suo  perseguimento richiede  risorse e quindi la capacità di contrastare l’evasione e di  ridurre “spese improduttive”: altro obiettivo perseguito  da tempo con esiti solo parziali.

E’ significativo che la relazione  non abbia fatto  cenno a ulteriori riforme  della legislazione  del lavoro, né in particolare al tema della flessibilità. E’ un punto importante. Conferma l’idea che oggi l’impegno principale  non solo per l’Italia, riguarda le politiche  della crescita  e del sostegno  operativo  all’occupazione, non la modifica della normativa, che di per sé non crea lavoro.

Ritengo che sia possibile, come sembra voler fare il governo, qualche aggiustamento sperimentale alle recenti leggi sul lavoro; ma senza sovvertire ancora  una volta il sistema, come si è fatto in passato ad ogni cambio di governo. Ad es. è possibile liberalizzare in qualche aspetto il contratto a termine per i giovani, come si è deciso  per le start up;  rendere più semplice l’apprendistato, abolendo l’obbligo legale di stabilizzazione e lasciandolo ai contratti collettivi; ribadire che la formazione si può fare anche on the job, senza necessità di redigere piani formativi, a condizione che sia certificata da enti affidabili.

Altre innovazioni di sistema sono necessarie, come quella, pure ipotizzata in sede governativa, di prevedere opzioni di pensionamento flessibile, entro una fascia di età (ad esempio 63–70 anni) con penalizzazioni, e le forme prospettate di “staffetta generazionale”.

Ma occorrerà valutarne i costi; ed evitare di “sovraccaricare” i testi normativi”.

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