Una verità scomoda: i centri per l’impiego possono crescere solo con l’aiuto dei privati.

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Il sistema italiano dei servizi per l’impiego non decolla. Le stastiche dicono che la quota di persone che trova un’occupazione grazie al sostegno, diretto o indiretto, delle strutture pubbliche è irrisoria. Di fatto, i Centri per l’Impiego oggi non incidono in alcun modo sul mercato del lavoro, dove i canali di accesso al lavoro sono ancora le “reti informali” (relazioni personali, quando va bene, racccomandazioni, nei casi peggiori) oppure le Agenzie private per il lavoro, che si occupano però in maniera principale di somministrazione di lavoro e poco (quasi per niente) di collocamento delle persone. La situazione non cambia se guardiamo a servizi ancora più specialistici, particolarmente utili in un periodo come questo, quale l’outplacement: pensare di trovare un centro pubblico capace di svolgere questa attività è illusorio, e anche nel privato sono poche le realtà di eccellenza. Questa situazione crea notevoli guasti al mercato del lavoro. Senza un servizio efficiente di mediazione tra domanda ed offerta di lavoo, le persone possono concorrere alla pari per le posizioni lavorative migliori; il merito diventa un valore secondario, e cede il passo alle relazioni personali. Il nuovo Governo sembra intenzionato ad intervenire sulla materia, anche se non è ancora chiaro quali misure si vogliono adottare. Certamente, non può essere una misura efficace quella di incrementare il personale dei centri pubblici, ci vuole altro; come dimostra l’esperienza comparata, per far funzionare un sistema di servizi per l’impiego servono, essenzialmente, tre fattori. Il primo fattore, ribadito più volte dall’Unione Europea, è la cooperazione tra pubblico e privato. L’art. 4 della Costituzione impone alla Repubblica di dare attuazione al diritto al lavoro, creando un sistema capace di aiutare le persone ad inserirsi (o reinserirsi) nel mercato. Per attuare fino in fondo questo principio, sarebbe necessario identificare una serie di servizi e attività, anche di carattere formale (certificazione stato di disoccupazione, gestione liste di mobilità. ecc.) che possono essere gestite con pari poteri (e finanziamenti) anche dai privati. Altrimenti si verificano paradossi come quelli del 2010, quando fu introdotta la c.d. somministrazione acausale per gli iscritti alle liste di mobilità, ma le agenzie private non riuscivano ad usare la misura perchè i centri pubblici non consegnavano le liste. Bisogna superare competizioni di questo tipo, che fanno di perdere vista l’obiettivo finale, quello di creare un mercato del lavoro dinamico. Il secondo fattore che sarebbe indispensabile per far funzionare i servizi per l’impiego è il legame con le politiche passive: non si può pensare di gestire il disoccupato come un pacco postale, che la mattina va all’Inps a prendere l’ammortizzatore sociale, e il pomeriggio va al centro per l’impiego per parlare delle misure di inserimento lavorativo. In tutta Europa tutto il percorso viene discusso nello stesso ufficio, con la stessa persona, che assegna dei compiti (es. la formazione) al disoccupato, e controlla che siano svolti correttamente, pena la perdita del trattamento di disoccupazione. Il terzo ed ultimo elemento che servirebbe per far funzionare il sistema è il coordinamento nazionale. Il decentramento del Titolo V si è rivelato fallimentare; le politiche attive del lavoro sono, oggi, gestite solo a livello regionale, senza alcun coordinamento a livello nazionale, con la conseguenza che manca lo spazio per qualsiasi programmazione integrata. Inoltre, il decentramento non ha avvicinato l’amministrazione al cittadino, ma ha solo moltiplicato i centri di regolazione (e di spesa), creando paradossi inaccettabili, come il fatto che lo stato di disoccupazione può essere soggetto a requisiti diversi da Pesaro a Rimini.

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