Consiglio di Stato: alla mancata fruizione del riposo settimanale consegue il diritto al risarcimento anche in assenza della prova del danno

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Marzia Sansone

Con sentenza n. 7 del 19 maggio 2013 il Consiglio di Stato in adunanza plenaria, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno di due dipendenti addetti al trasporto pubblico per aver prestato attività lavorativa nei giorni di riposo settimanale per un decennio.

Con riferimento alle modalità di prova del danno, il Consiglio rigetta le deduzioni della Società convenuta – per la quale la pretesa al risarcimento è stata avanzata dai ricorrenti in relazione al danno non da usura psicofisica, bensì biologico, il quale, concretizzandosi in una infermità contratta dal lavoratore, non può essere ritenuto presuntivamente sussistente ma deve essere dimostrato sia nella sua sussistenza che nel nesso eziologico con l’attività lavorativa usurante mentre, nella specie, siffatta dimostrazione non è stata fornita – fornendo due importanti precisazioni.

In primo luogo, il Consiglio chiarisce la rilevanza delle qualificazioni fatte dalle parti, sottolineando il dovere del giudice di merito di indagare le reali intenzioni dei ricorrenti. Infatti, per il Consiglio, “i ricorrenti non hanno inteso collegare il richiesto risarcimento al danno propriamente biologico, bensì ad un danno derivante dalla usura psicofisica scaturente dalla mancata fruizione del riposo settimanale e compensativo spettante ai dipendenti, affinché essi possano reintegrare le proprie energie fisiche e psichiche; danno rappresentato come attinente alla sfera esistenziale perché tale da impedire al dipendente di realizzare la propria personalità, costringendolo a limitare o a non esercitare quelle attività, anche non lavorative, che afferiscono alla vita normale di un soggetto”.

Richiamando la giurisprudenza civile, il Consiglio riafferma il dovere del giudice di merito di indagare il contenuto e la portata delle domande sottoposte alla sua cognizione avendo riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere così come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame qualora limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. In quest’ottica, pertanto, diviene irrilevante la circostanza che i ricorrenti abbiano definito il danno come biologico.

Con riferimento al danno da usura psico-fisica, in considerazione dell’afferenza a lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente protetto (art. 36 Cost.), è innegabile la sua riconducibilità al disposto dell’art. 2059 c.c., che prevede una categoria unitaria di danno non patrimoniale per lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, in cui rientrano sia il danno biologico, sia il danno esistenziale, quale quello da usura psico-fisica.

In secondo luogo, con riferimento alla prova, il Consiglio fornisce un’interpretazione a fortiori richiamando l’orientamento giurisprudenziale formatosi con riferimento al danno biologico; se con riferimento a quest’ultimo, infatti, la giurisprudenza civile ammette l’indagine da parte del giudice circa il verificarsi della menomazione dell’integrità psico-fisica ricorrendo alle presunzioni – a prescindere dall’accertamento medico-legale – a maggior ragione  deve ammettersi il ricorso a presunzioni in tema di danno ad un bene immateriale consistente nel pregiudizio, oggettivamente accertabile, arrecato alle attività non remunerative del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini e i propri assetti relazionali e a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti.

Pertanto, occorrerà dimostrare il “fatto noto” dal quale sarà poi desunto il fatto-conseguenza da provare; nella fattispecie, il Consiglio ha ritenuto provato il fatto noto – consistente nell’avere i ricorrenti prestato la propria attività anche nei giorni di riposo settimanale per un periodo pari ad un decennio – e, da questo, ha desunto, come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità, la sussistenza del danno da usura psicofisica dei dipendenti; la perdita del riposo settimanale, infatti, si traduce nella mancata ricostituzione delle energie psico-fisiche del lavoratore, determinandone una situazione patologica di stress, ossia una sofferenza soggettiva con significativa compromissione nel funzionamento sociale ma anche lavorativo.

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