Giampiero Falasca
Il lavoratore licenziato alla fine di una procedura collettiva ha diritto di ottenere il trattamento di mobilità, anche se il recesso è intervenuto dopo i 120 giorni previsti dalla legge come termine massimo entro il quale deve essere risolto il rapporto di lavoro, senza che sia stato stipulato un accordo sindacale per allungare la scadenza. Inoltre, il termine di 60 giorni dal licenziamento imposto al dipendente per chiedere il pagamento dell’indennità ha carattere ordinatorio, e può essere superato in presenza di una valida giustificazione. Con questi principi, la Corte di Cassazione (sentenza 27 maggio 2013, n. 13112) adotta una lettura molto estensiva delle norme che regolano il diritto di accesso al trattamento di mobilità, che renderà più facile l’accesso al trattamento per quei lavoratori che restano impigliati dentro procedure gestite male dai propri precedenti datori di lavoro. La controversia decisa dalla Corte riguarda un dipendente che è stato licenziato alla fine di una procedura di riduzione collettiva del personale; questo lavoratore, al termine della procedura, è rimasto temporaneamente in servizio, per il disbrigo delle ultime pratiche burocratiche, ed è stato licenziato dopo che sono passati più di 120 giorni dalla data in cui si era conclusa la procedura stessa. Una volta licenziato, il lavoratore ha presentato domanda all’Inps per ottenere il trattamento di mobilità, ma si è visto opporre un netto rifiuto dall’Istituto di previdenza, in quanto era stato superato il termine di 120 giorni, senza un accordo sindacale che consentisse tale sforamento. La Cassazione ritiene illegittimo il rifiuto, utilizzando un’interpretazione estensiva della normativa vigente, che sul punto sembrerebbe molto chiara (l’art. 8 della legge n. 236/1993 prevede che il collocamento in mobilità deve avvenire entro 120 dalla fine della procedura, oppure entro il diverso termine previsto dagli accordi sindacali). Per giungere a questa conclusione, la Cassazione, ispirandosi ad una sentenza della Consulta su un caso analogo (sentenza 21 gennaio 1999, n. 6), sostiene che non può essere addebitato al lavoratore il comportamento negligente del datore di lavoro che, in sede di stipula dell’accordo collettivo, non si è premurato di chiedere ed ottenere lo slittamento del termine per il collocamento in mobilità. La Corte completa la decisione rilevando che il diritto del lavoratore non può essere negato neanche nel caso in cui egli presenti la domanda di iscrizione alla lista di mobilità dopo che è scaduto il termine di 60 giorni dal licenziamento (previsto dalla legge n. 236/1993), in quanto tale termine ha carattere ordinatorio, e può essere prorogato ogni volta che il lavoratore sia in grado di giustificare il ritardo.
Estratto da Il Sole 24 Ore del 28 maggio 2013.
Ero convinto di aver presentato la domanda all’inps per la mobiltà per il tramite di un CAF, non vedendo arrivare i compensi mi sono recato all’inps e mi hanno detto che ho perso tutto.
Senza lavoro, senza mobiltà, nemmeno perdendone una parte, senza assegno per nucleo familiare, ditemi voi per questa mia dimenticanza con due figli e moglie devo suicidarmi ?