Semplificazione: la riforma a costo zero che può cambiare l’Italia.

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Giampiero Falasca (Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2013)

Uno dei problemi più grandi e meno dibattuti dell’attuale mercato del lavoro è la complessità normativa. Le regole sono troppe, fissano adempimenti burocratici che sembrano avere solo un intento punitivo, e sono scritta in maniera talmente imprecisa da generare continui dubbi applicativi e accese diatribe giurisprudenziali. Questa situazione genera un clima di aperta ostilità verso quelle imprese che hanno l’ambizione di applicare tutte le regole del lavoro, mentre – paradossalmente – non viene avvertita come un problema da qui datori di lavoro che galleggiano, spesso impuniti, nell’economia sommersa e irregolare. Facciamo qualche esempio, per capire di cosa parliamo, partendo dalla vasta gamma delle comunicazioni obbligatorie; non parliamo della giusta e sacrosanta comunicazione che deve essere fatta quando si assume una persona (misura indispensabile contro il lavoro nero), ma di quegli adempimenti burocratici che complicano la gestione di contratti di lavoro flessibili. Ogni volta che si usa il lavoro intermittente bisogna inviare una comunicazione obbligatoria, sulla base di una modulistica ministeriale che cambia in continuazione. Analogo obbligo deve essere rispettato dal datore di lavoro che, per errore, prosegue di fatto, ma per un periodo contenuto, il contratto a termine dopo la sua scadenza. Come si può pretendere che l’azienda comunichi in via preventiva che sta per dimenticarsi della scadenza? Un altro esempio massimo di burocrazia è la procedura sulle dimissioni, introdotta dalla legge 92/2012 con il nobile intento di contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco. Questa finalità ha trovato attuazione in una procedura che impone alle aziende di rincorrere il lavoratore dimissionario, con dei paradossi giuridici incredibili se non viene esperita (il rapporto rinasce, contro la volontà delle parti!). Questo adempimento penalizza le aziende regolari mentre, sia detto per inciso, chi voleva fare il furbo ha già trovato i correttivi per neutralizzarlo.
Ci sono poi quelle norme scritte in maniera talmente imprecisa da generano incertezze applicative e possibili contenzioso. Il caso più noto ed eclatante è quello della causale del contratto a termine, che non frena alcun abuso ma serve solo ad intasare i tribunali del lavoro, ma gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Si pensi al destino amaro che viene riservato agli stage, stretti nella morsa di norme statali incostituzionali (il famoso art. 11 della legge n. 148/2011, annullato dalla Consulta), circolari ministeriali creative, e accordi intergovernativi (come quello del gennaio 2013) che potrebbero dare stabilità alla materia, ma devono ancora essere messi a regime nelle singole regioni. Un capitolo importante riguarda anche il processo del lavoro. Chi intende impugnare un licenziamento, deve affrontare 4 giudizi (e non più 3, come era prima della legge Fornero), e deve fare i conti con le incertezze applicative del nuovo rito sommario, che viene applicato in maniera diversa da un Tribunale all’altro. Un ordinamento giuridico di questo tipo non attrae investimenti e, anzi, diventa un ostacolo oggettivo per la creazione di nuova occupazione. E se fosse proprio la semplificazione la riforma a costo zero che può dare una scossa al mercato del lavoro?

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