Tiziano Treu
Massimo D’Antona lo ricordo tornare a casa tenendo in mano la borsa sempre piena di libri. Qualche volta mi capitava, abitando a due passi, di incontrarlo per strada. Lo accompagnavo fin sopra, al suo studio. Lì ci fermavamo a discutere, circondati da centinaia di volumi custoditi nella sua libreria, di ciò che accadeva nel nostro paese. Massimo era un uomo sereno e felice. Uno studioso coltissimo, uno scrittore lucido: probabilmente, tra i giuristi più grandi e scientificamente rilevanti degli ultimi decenni. A questo spessore culturale univa una profonda passione civile, che lo portò a seguire strade che l’avvicinarono all’impegno politico, alla collaborazione con il sindacato nonché alle consulenze con diversi ministri, tra cui io stesso. Oggi bisogna ricordare il suo sacrificio, oltre che il grande contributo di idee che diede. Il suo era un messaggio profondamente riformista, moderno e innovatore. Ciò che ha lasciato è un patrimonio speso solo in parte, quindi ancora fecondo per il rinnovamento del nostro sistema giuridico e normativo. Tra i suoi contributi più incisivi, qui ne ricordo brevemente tre. In primis, la strutturazione di un moderno impianto legislativo nel settore del pubblico impiego, costruito attraverso la ricerca di un equilibrio produttivo tra la contrattazione collettiva e la legge. Un rapporto delicato che oggi si è del tutto incrinato, sia a causa dello strabordare della contrattazione sia per la supremazia della legge che si è infine imposta con la recente riforma. Nella disciplina del pubblico impiego, invece, decisivo è stato il suo apporto per la messa a punto degli strumenti tecnici idonei alla misurazione della rappresentatività sindacale. È questo in effetti uno dei dispositivi che potrebbero essere estesi, approntando le giuste misure di adattamento, anche nel settore privato. Ed ecco dove si rivela tutta la forza innovatrice, e ancora attuale, dell’elaborazione di Massimo D’Antona. Il terzo dei suoi contributi riguarda, infine, la capacità di garantire nel pubblico impiego l’autonomia dei dirigenti dall’ingerenza della politica. Qui mi fermo. Non perché non ci siano altri importanti riconoscimenti da enumerare, piuttosto perché esistono tutta una serie di idee e di suggestioni che egli lanciò rimaste del tutto ignorate e che meritano oggi di essere riprese e colte nella loro importanza. Innanzitutto, l’idea di un’impostazione delle relazioni industriali più razionali e strutturate attraverso regole moderne e chiare. Un’innovazione, questa, che confluì solo in parte nella riforma del 1993, che poi tentammo, senza successo, di aggiornare nel periodo 1997-1998. Ci sono poi idee rimaste soltanto nel piano della sua produzione scritta che rappresentano un patrimonio del tutto inesplorato. A partire dalla visione di una riforma del welfare in senso universalistico, che spazia dalla riforma degli ammortizzatori sociali all’allargamento dei diritti alle categorie non protette: un’innovazione che, se a suo tempo fosse stata colta come meritava, oggi avrebbe evitato all’Italia di trovarsi di fronte alla crisi a domandarsi come riformare il suo stato sociale. Ed ecco allora che riflettendo sulla figura di D’Antona si passa presto a scoprire i ritardi con i quali il nostro paese deve fare i conti e i vuoti che deve ancora colmare.