Filippo Chiappi
Spesso nell’ambito della gestione dei lavoratori in somministrazione, viene modificata la mansione, con estrema leggerezza, determinando alcune criticità. L’esperienza induce sicuramente a porre l’attenzione sull’istituto al fine di una maggiore cognizione ed attenzione lavoristica sul tema in argomento.
Vengono esposte, con la presente, alcune riflessioni, suddivise per punti, e di carattere generale:
1) a differenza di qualsiasi altro negozio giuridico ove la modifica unilaterale di una condizione contrattuale non sarebbe mai possibile, nell’ambito del solo diritto del lavoro ciò’ e’ reso perseguibile;
2) per quanto al punto 1 e per quanto in premessa, ne consegue che nello specifico ci si riferisce all’art 2103 del c.c., novellato dall’art 13 della legge 300/70;
3) il lavoratore deve essere adibito, in primis, alla svolgimento della mansione per cui è stato assunto;
4) la mansione può essere modificata attraverso un accordo tra le parti negoziali, sia in ambito orizzontale (equivalenza) sia in termini verticali ascendenti (mansioni superiori);
5) la mansione può essere modificata, per quanto al punto 1, anche in modo unilaterale da parte del datore di lavoro, attraverso l’esercizio dello “ius variandi”. Esercizio reso ammissibile in senso di equivalenza delle mansioni ed in senso “ascendente verticale”;
6) L’esercizio unilaterale ovvero condiviso e convenuto tra le parti negoziali, della modifica delle mansioni, è espressione attuativa del potere direttivo e conformativo datoriale, affinché la prestazione stessa sia, nei suoi contenuti oggettivi, sempre funzionale ed utile alle finalità programmate dal datore stesso;
7) Lo ius variandi è un potere che ai sensi del 2103 del c.c. può essere sviluppato, con il rispetto delle tutele per il lavoratore, adibendo il prestatore a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte od a mansioni corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito mentre non può essere adibito a mansioni inferiori per effetto dello ius variandi discendente (“demansionamento”). Demansionamento o patto di demansionamento che può essere convenuto tra le parti solo in determinate situazioni;
8) In merito al concetto di equivalenza della mansione, esso non è solo economico retributivo, cioè non è che una mansione è equivalente rispetto ad un’altra solo perché non si riduca la retribuzione; anche perché nel diritto del lavoro comunque vige il principio generale di irriducibilità della retribuzione. E’ ovvio che l’esercizio dello ius variandi del datore di lavoro non può comportare mai e poi mai una riduzione della retribuzione. L’equivalenza quindi non va intesa solo in senso economico retributivo ma soprattutto quale tutela del bagaglio professionale del lavoratore. Il lavoratore dopo il mutamento della mansione, cioè dopo l’avvenuto esercizio dello ius variandi, deve poter essere nelle medesime condizioni di professionalità che aveva prima. Il suo bagaglio professionale, il suo background culturale non deve essere mortificato anzi deve costituire la base anche per una successiva ed ulteriore stratificazione delle competenze. Lo ius variandi può essere esercitato solo tra mansioni equivalenti dal punto di vista professionale. Non è detto che a parità di inquadramento, cioè a parità di livello, a parità di qualifica, ci sia necessariamente la parità di contenuto concreto della mansione. Se un soggetto è un 2°livello e resta un 2° livello ma il contenuto delle mansioni realizza un decremento professionale, il fatto che il livello rimanga lo stesso non vuol dire assolutamente nulla in termini di garanzia dell’equivalenza professionale, poiché la mansione è il contenuto concreto. I compiti concreti che il lavoratore è chiamato a svolgere dal datore di lavoro, sono quelli che mutando lo debbono fare nel rispetto dell’equivalenza a prescindere dal mantenimento o meno dello stesso inquadramento. In definitiva la garanzia per la parte più debole del rapporto consiste nella utilizzabilità, nello sfruttamento del bagaglio professionale acquisito nello svolgimento della mansione di provenienza, di partenza. La norma tutela non tanto il bene retribuzione, di per sé è irriducibile, quanto il bene professionalità. In caso contrario, il lavoratore può denunciare il demansionamento, deducendo e provando che tra la mansione di partenza e quella di destinazione non gli venga consentita la possibilità di esplicare o addirittura di incrementare il bagaglio professionale già posseduto. Demansionamento non vuol dire propriamente adibizione a mansioni afferenti ad una qualifica inferiore, bensì, in senso più omnicomprensivo, a mansioni con contenuto professionale minore; un decremento di professionalità.
9) Per quanto al punto 8, sempre con onere a carico del lavoratore, il ricorrente potrebbe invocare un danno patrimoniale: a causa del demansionamento, il lavoratore ha perso quelle chances lavorative propedeutiche ad un percorso di carriera ed economico; e/o danni non patrimoniali. In quest’ultimo caso, si individua il danno esistenziale (diminutio e regressione nella vita di relazione e nella immagine sociale, a causa del demansionamento) ovvero il danno biologico (danni rientranti nella sfera della salute, della sfera psichica, della sfera emotiva: crisi di ansia, crisi depressive, turbe neurovegetative).
9) lo ius variandi, secondo le disposizioni del Dlgs 276/03, nell’ambito del potere direttivo ed organizzativo compete all’utilizzatore, di concerto con l’Agenzia per il Lavoro. Si ricorda che nell’ambito della somministrazione e dell’esercizio datoriale della variazione di mansione, deve permanere la causale di ricorso ab initio, anche in regime di proroga. Il venir meno della stessa, determina che il negozio commerciale ed in secundis quello lavorativo debbano essere caducati, pena l’applicazione dell’art 27 del Dlgs 276/03 con possibile conversione (o meglio costituzione) a danno del convenuto di un rapporto a tempo indeterminato.