Mobbing: una nozione sfuggente

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Pasquale Siciliani
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A molti colleghi lavoristi sarà sicuramente capitato almeno una volta di sentirsi dire da un cliente: “avvocato ho subito mobbing”. Non sempre però la denuncia dello sfortunato cliente può essere ascritta a una fattispecie di mobbing, mancando solitamente (o essendo molto difficile da provare) l’intento persecutorio o la reiterazione del comportamento da parte di chi lo ha commesso.
La giurisprudenza definisce il mobbing come un insieme di comportamenti e atti ostili, sotto forma di prevaricazione o persecuzione psicologica, perpetrati nel tempo ai danni di una persona sul luogo di lavoro, al fine di renderne difficile la permanenza al lavoro e recanti un grave danno alla salute fisica e mentale del lavoratore stesso (Cass. 3875/09).
Ci si riferisce, ad esempio, a comportamenti tesi all’emarginazione e all’isolamento di un lavoratore che venga escluso dalla partecipazione alle attività professionali di rilevante entità ovvero che venga privato delle informazioni necessarie a consentirgli lo svolgimento delle mansioni. Il mobbing può tradursi anche in assegnazione a incarichi umilianti o non confacenti alla posizione professionale, nello svuotamento totale delle mansioni fino ad arrivare alle molestie sessuali.
Vale la pena inoltre distinguere le varie tipologie di mobbing; nell’accezione comune si annoverano tre principali categorie: il mobbing verticale, nel quale il lavoratore subisce vessazioni dai propri superiori gerarchici; quello orizzontale, quando il comportamento vessatorio proviene dai colleghi; il c.d bossing, quando chi subisce la vessazione è il superiore gerarchico ad opera dei sottoposti.
In ogni caso, qualunque forma esso assuma, affinchè si possa veramente parlare di mobbing è necessario che si verifichino alcune condizioni che lo distinguono da altri comportamenti illegittimi sul luogo di lavoro i quali, sebbene rivestano una carattere vessatorio, non sono di per sé idonei a qualificarlo.
Secondo la giurisprudenza, un primo elemento necessario a integrare la fattispecie del mobbing è l’intensità lesiva delle condotte datoriali illecite (SS.UU. 5295/1997). Non si potrà pertanto parlare di mobbing nel caso di comportamenti che, per quanto sgradevoli e frequenti possano essere, non siano di intensità tale da procurare un danno psicologico alla vittima.
Un secondo requisito è la reiterazione dei comportamenti vessatori per un periodo prolungato nel tempo, i quali dovranno pertanto avvenire con ragionevole frequenza. Un comportamento isolato, per quanto grave possa essere, non costituirà mobbing.
E’ necessario, infine, che vi sia un intento persecutorio da parte dell’aggressore nei confronti della vittima.
Tutto ciò non significa che colui che subisca azioni vessatorie prive dei suddetti requisiti non possa ricevere adeguata tutela.
Per fortuna, in una cornice giuridica opaca nella quale il fenomeno del mobbing è ancora inspiegabilmente lontano dall’essere penalmente rilevante, un chiaro di luna è rappresentato dalla sentenza della Cassazione n. 18927 del 5 novembre 2012, la quale ha sancito che il datore di lavoro, nonché i colleghi della vittima in caso di mobbing “orizzontale”, potranno essere comunque essere ritenuti responsabili di singoli episodi mortificanti e vessatori nei confronti del lavoratore anche qualora questi non siano accomunati da un unico disegno persecutorio.
Allo sfortunato cliente che invocherà un improbabile mobbing ci sarà finalmente consentito di dare comunque delle speranze risarcitorie.

2 comments

  1. io l’ho subito in ospedale da colleghe rumene ma erano cosi cattive che non ho avuto prprio la voglia di andare nell’ufficio competente e denunciare

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