Giampiero Falasca
Torino, giornata di formazione con operatori impegnati, a vario titolo, nei servizi per l’impiego. Oggetto: come funzionano i contratti di lavoro. Dopo i primi minuti di spiegazione sui mille cavilli che accompagnano i contratti flessibili – fatta a tecnici, non a cittadini del tutto ignari di cosa parliamo – inizia a serpeggiare la perplessità, per la montagna di regole che rendono asfittica la vita quotidiana di chiunque gestire il lavoro. Notevole il commento di un operatore dopo la spiegazione della montagna di precetti sul lavoro intermittente: “ci vuole più tempo a scrivere il contratto che a fare la prestazione di lavoro”.
Le regole meno comprese dalla platea sono due.
La “causale” dei contratti a termine, cioè la giustificazione che ciascuna azienda deve presentare al giudice per convincerlo a non convertire a tempo indeterminato un rapporto, e il c.d. “stop and go”, l’obbligo per l’azienda di aspettare 3 mesi prima di riassumere un lavoratore.
Sono norme di cui nessuno capisce il senso: non tutelano nessuno, ma servono solo a tranquillizzare la coscienza del legislatore di turno, che in questo modo pensa di aver fatto qualcosa di buono per ridurre la precarietà.
Arriva, puntuale, la domanda che si fanno tutti quelli che mettono il naso su questo tema: ma perché esiste tutta questa complessità?
Questa domanda non viene ascoltata dal legislatore, che – come dimostra la legge Fornero – non considera affatto il problema.
Eppure restiamo convinti che si tratta di una assoluta priorità, e quindi continuiamo a sperare che prima o poi arrivi qualcuno che capisca che la strada da seguire è quella opposta: ridurre le regole, semplificare le procedure, combattere ferocemente contro tutti i cavilli che servono solo ad ingolfare i tribunali. Queste misure servirebbero a ridare competitività al nostro ordinamento giuridico, che oggi è dichiaratamente ed apertamente ostile a chiunque voglia assumere delle persone con un contratto di lavoro.
