Gianni Bocchieri
L’opinione diffusa sulla riforma Fornero è che abbia determinato una contrazione dell’occupazione. Appena un mese dopo la sua approvazione, si è diffusamente sostenuto che l’irrigidimento della flessibilità in entrata stava determinando il mancato rinnovo dei contratti a termine e delle collaborazioni a progetto. Pochi hanno ricordato che l’irrigidimento della disciplina dei contratti a tempo determinato era stato già operato nel 2007 dal governo Prodi, con l’introduzione dell’obbligo di stabilizzazione del lavoratore a termine dopo 36 mesi di rapporto di lavoro. Infatti, gli effetti di quella norma sul generale funzionamento del mercato del lavoro non potevano essere immediati. Non è difficile immaginare che l’introduzione di meccanismi di stabilizzazione forzosa possa determinare una maggiore volatilità dei rapporti di lavoro, anziché ridurre la precarietà in modo meccanicistico. In altri termini, sembra plausibile immaginare che a ridosso dei termini di stabilizzazione le imprese non rinnovino i contratti a termine e si limitino ad usare la stessa tipologia contrattuale per le nuove assunzioni, cambiando semplicemente il lavoratore. In questo modo, l’effetto finale sarebbe esattamente il contrario dell’obiettivo dichiarato di una generica riduzione della precarietà.
Nonostante si potesse prendere spunto da questo semplice ragionamento intuitivo, la riforma Fornero ha mantenuto lo stesso approccio per ridurre la cosiddetta flessibilità negativa. Però, ha almeno previsto la costruzione di un sistema di verifica e valutazione della riforma del lavoro, con la finalità di monitorare lo stato di attuazione degli interventi e delle misure della riforma stessa. Finalmente, si è riconosciuta la necessità di basare i giudizi su provvedimenti normativi di così ampia portata sull’analisi dei dati ormai disponibili sulle dinamiche del mercato del lavoro.
Il monitoraggio istituzionale della riforma è stato affidato all’ISFOL, l’Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei lavoratori, che pochi giorni fa ha presentato un primo report predisposto sulla base dei dati disponibili dal sistema delle comunicazioni obbligatorie. La scelta di utilizzare i dati che tutti i datori di lavoro devono obbligatoriamente comunicare per ogni costituzione, trasformazione o cessazione dei rapporti di lavoro e delle collaborazioni a progetto è la scelta giusta. La ricchezza informativa del sistema delle comunicazioni obbligatorie è straordinaria, soprattutto se integrata con le altre banche dati statistiche e amministrative dell’Inps, dell’Istat, dell’Inail e della Banca d’Italia.
Lo stesso ISFOL ritiene che i dati di questo primo report devono essere letti con prudenza, per valutare gli effetti della riforma Fornero, sia perché riguardano un periodo molto breve dalla sua entrata in vigore, sia per l’aggravarsi dello scenario congiunturale registrato nel corso del 2012. In estrema sintesi, il report dice che è diminuito l’andamento complessivo delle attivazioni di rapporti di lavoro, così come è diminuito il numero delle cessazioni dei rapporti di lavoro instaurati prima della riforma. Dalle differenze riscontrate nelle variazioni tra i diversi istituti contrattuali, il rapporto dell’ISFOL desume che vi sia stata una diminuzione dei contratti a progetto a favore di altre tipologie contrattuali. Pertanto, parrebbe realizzato l’obiettivo perseguito dalla riforma di contrastare la flessibilità cattiva, sostituendola con la flessibilità buona. Pur apprezzabilissimo, il tentativo di fornire i primi esiti della riforma del mercato del lavoro rischia di non consegnare un’analisi adeguata. Non basta limitarsi al confronto tra i dati di flusso delle attivazioni e delle cessazioni dei rapporti di lavoro delle diverse tipologie contrattuali. Per capire se la diminuzione dei contratti a progetto ha determinato una loro trasformazione in contratti a termine, occorre fare le analisi longitudinali dei singoli percorsi lavorativi.
Insomma, questo primo rapporto di monitoraggio sembra affetto da eccessiva precocità.