Filippo Chiappi
Il rapporto di lavoro ed il suo endogeno sinallagma patrimoniale trovano la genesi nel contratto di lavoro quale incontro delle volontà delle parti, non avente una forma scritta ad substantiam ossia una prescrizione formale ben precisa: da considerarsi requisito sostanziale solo qualora previsto dalla legge sotto pena di nullità. Sulla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, il codice civile non ci offre una definizione tipologica del contratto da cui discendono i rapporti e la relativa qualificazione. L’aleatorietà del nomen iuris dato dalle parti, impone quindi uno sforzo per individuare quali siano le caratteristiche generali della subordinazione, dell’autonomia e della parasubordinazione. ll rapporto di lavoro autonomo in base all’art 2222 del c.c. si realizza quando una persona si obbliga a compiere un’opera od un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza alcun vincolo di subordinazione, nei confronti di un committente. Il lavoratore autonomo non è soggetto a nessun ordine e direttiva del committente e si trova in una posizione di piena indipendenza nella gestione dei tempi, dei luoghi e delle modalità di organizzazione della propria attività rispetto alla quale assume in proprio il rischio e che deve essere diretta alla realizzazione di un risultato finale (obbligazione di risultato). Se la prestazione autonoma presenta i caratteri della continuità e della coordinazione con l’attività svolta dal committente, si è fuori dallo schema di lavoro autonomo di cui all’art 2222 del c.c., ma in presenza della diversa categoria della parasubordinazione. Si tratta di una fattispecie negoziale di derivazione prettamente giurisprudenziale e dottrinale, che ha trovato un primo riscontro di genesi nell’art 409 del cpc che, ha seguito delle modifiche della legge 533/1973, ha esteso le disposizione del processo del lavoro anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che si concretizzano in un prestazione d’opera continuativa e coordinata con l’attività del committente, prevalentemente personale e non avente il carattere della subordinazione. Nascono i cococo. Innanzitutto si parla di una prestazione d’opera che si realizza in piena autonomia senza vincolo di subordinazione e quindi con l’obbligo di risultato e senza alcun obbligo di collaborare nell’impresa come il lavoratore subordinato (bensì “collaborare all’impresa”). Aspetto innovativo è l’associazione di una prestazione d’opera, avente le caratteristiche appena descritte, con l’idea della collaborazione coordinata e continuativa; concetti questi ultimi che nascono al di fuori di una previsione civilistica ma esclusivamente da un dettato normativo del codice di procedura civile. Ciò determinerà per i co.co.co una genesi caratterizzata da un vuoto legislativo e di tutele. Sul concetto di continuativo la giurisprudenza di quegli anni affermerà che non esistono parametri numerici e temporali tali da consentirne l’individuazione bensì la continuità risiede in una prestazione d’opera duratura, prolungata per un tempo più o meno lungo ma non certamente estemporanea, occasionale, unica nel verificarsi. Sul concetto di coordinamento, la dottrina e la giurisprudenza dell’epoca intendeva collocare il prestatore d’opera stabilmente nell’ambito del processo produttivo aziendale, riconducendo pertanto la sua attività nel rispetto e nella realizzazione delle finalità dei processi stessi. Con il coordinamento altro non si realizzava che il legame tra la prestazione lavorativa del collaboratore ed il risultato che si attendeva il committente: legame che si otteneva inserendo, proprio in virtù del coordinamento del committente, l’attività collaborativa all’interno del processo aziendale e soprattutto delle finalità dello stesso. Ultimo aspetto fu la tematica dell’apporto lavorativo prevalentemente personale. La previsione dell’art 409 cpc intendeva consacrare come il cococo, in quanto tale, doveva svolgere una prestazione lavorativa continuativa e coordinata ma soprattutto con lavoro prevalentemente personale: non doveva avere un’organizzazione alle spalle, non doveva avere strumenti e mezzi propri. Il co.co.co svolgeva la sua attività utilizzando la struttura e l’organizzazione del committente ed offrendo il lavoro in prima persona. Tutto ciò per distinguere la parasubordinazione dal lavoro autonomo ex art 2222 del c.c. in cui la prestazione di un’opera o di un servizio veniva effettuata con lavoro prevalentemente proprio: in presenza quindi di un’organizzazione propria,raggiungendo il risultato secondo le aspettative del committente non necessariamente con lavoro personale bensì con lavoro proprio quale diretta espressione della sua organizzazione di mezzi. Il cococo nasce come lavoro autonomo poiché trattasi di una prestazione d’opera o di servizio di tipo personale, senza alcun vincolo di subordinazione per la completa assenza nel rapporto del potere direttivo, organizzativo, di vigilanza e disciplinare. Si avvicina però al lavoro subordinato per il connotato personale della prestazione, per il coordinamento del committente e la continuità temporale. Da qui il termine parasubordinazione ossia a metà strada tra lavoro autonomo e subordinato. La presenza di caratteristiche che accomunavano il cococo al rapporto di lavoro subordinato unitamente ad una destrutturazione normativa e comunque non particolarmente gravosa per il committente, determinarono un’esplosione di tale istituto spesso utilizzato per eludere la normativa sul lavoro subordinato. Di fronte al dilagare dei cococo, si determinò una tesi moderata che nel 2003 diede alla luce una disciplina sostanziale e tutelante dell’istituto. L’art 61 del D.Lgs. 276/03 affermava come i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere riconducibili ad uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso, predeterminati dal committente e gestiti in autonomia dal collaboratore, in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa. Le collaborazioni devono essere riconducibili ad un programma od un progetto: il negozio giuridico deve avere un inizio ma anche una fine. Viceversa i cococo avevano un inizio coincidente con il momento genetico del rapporto ma avevano una prosecuzione a tempo indeterminato. Il progetto consiste in un’attività produttiva ben identificabile e funzionalmente collegata ad un determinato risultato finale. Diviene quel contenitore entro cui la prestazione deve essere resa. Mentre il programma di lavoro consiste in un’attività cui non è direttamente riconducibile un risultato finale ma che è destinata ad essere integrata con altre prestazioni o collaborazioni parziali, al fine del risultato finale. Il Ministero aveva precisato che il progetto poteva essere connesso sia all’attività principale che a quella accessoria dell’impresa ma doveva comunque consistere in un’attività produttiva ben connotata e funzionalmente collegata alla realizzazione di un risultato finale, cui il collaboratore partecipava direttamente con la sua prestazione. La relativa mancanza nel contratto, determinava oltre alla nullità dello stesso, anche la trasformazione ipso iure, in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con efficacia ex tunc, applicando la subordinazione tecnica, quindi presunzione assoluta: non c’è prova contraria ed il rapporto era subordinato ab origine. Il Ministero del Lavoro nel 2004 afferma che la presunzione che c’è nella legge non è assoluta ma relativa ossia che ammette prova contraria. Ne consegue che se in sede di contraddittorio dinnanzi al giudice, le parti dimostrano che l’attività è stata resa in modo autonomo, il giudice non volturerà quel contratto in un negozio di tipo subordinato bensì nel contratto che le parti di fatto hanno posto in essere e quindi anche in rapporto di lavoro autonomo. La “Riforma Fornero” e le disposizioni di modifica sull’art. 61, co. 1 del D.Lgs. n.276/2003 non riguardano le collaborazioni vecchio stile (cococo che non hanno bisogno del progetto) e che rimangono pertanto immutate. La logica della modifica è quella di intervenire in modo esclusivo sulle collaborazioni coordinate e continuative a progetto stipulate dopo l’entrata in vigore della riforma. Introduzione di una presunzione legale relativa,di subordinazione, al verificarsi di determinate situazioni: se l’attività del collaboratore svolta in maniera prevalente e con carattere di continuità, presenta modalità esplicative ed esecutive analoghe a quelle del dipendente diretto del committente. Il collaboratore può fare la stessa attività che viene svolta all’interno dell’azienda da un lavoratore subordinato, purché la svolga con modalità organizzative radicalmente diverse. Di contro, anche qualora il collaboratore svolga attività diverse ma con le medesime modalità caratterizzanti la prestazione resa da lavoratori dipendenti della stessa impresa (ad esempio il rispetto di un orario di lavoro, assoggettamento pieno al potere direttivo ovvero al potere disciplinare) la presunzione legale trova ovviamente applicazione. Salvataggio ci perviene dalla disposizione contenuta nella stessa norma nel momento in cui dice “fatte salve però le prestazioni di elevata professionalità” individuate dai ccnl. Le parti sociali andranno ad identificare quali prestazioni, rese nell’ambito del settore merceologico oggetto di contrattazione collettiva, possono essere considerate di alta professionalità e quindi tali da poter sfuggire alla presunzione legale se svolte dal collaboratore. I rapporti, laddove non si verifichi questa conditio di esenzione, e che presentano una modalità organizzativa ed esplicativa “non diversa” da quella prevista per i dipendenti dell’azienda, sono considerati subordinati dalla data di costituzione e non da quando è stato accertato. La presunzione legale di subordinazione, in argomento, è di matrice relativa e non assoluta, con la possibilità, quindi, per il committente di provare il contrario.
Restrizioni riguardano il progetto: il legislatore del 2012 va in contrasto con la circ. Min. Lav. n.1/2004, laddove si affermava come il progetto sostanzialmente poteva coincidere con l’attività l’azienda. Non può essere una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente; il progetto pur potendo rientrare nel normale ciclo produttivo aziendale e con ciò quindi non dovendo necessariamente avere caratteri di straordinarietà ed eccezionalità, lo stesso parimenti deve avere per oggetto un’attività che si affianca all’attività principale dell’impresa ma senza confondersi, senza miscelarsi nella stessa. E’ necessario individuare un risultato che sia obiettivamente verificabile, da realizzarsi tra l’altro in un determinato arco di tempo, senza più alcuna possibilità di indicare come progetto un’attività del tutto corrispondente a quella che caratterizza la stessa mission aziendale, il core business del committente. Riproponendo l’oggetto sociale del committente, il progetto non è valido e con ciò determinando, in virtù della presunzione assoluta, la conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con efficacia ex tunc.
Sulla mancanza del progetto, la posizione ministeriale era quella in base alla quale in caso di mancata formale individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, il rapporto di collaborazione si considerava lavoro subordinato a tempo indeterminato ex tunc. Si trattava di una presunzione relativa che poteva essere superata qualora il committente forniva in giudizio prova dell’esistenza del progetto Ora, la legge cambia rotta e ci riporta ad uno concetto di presunzione assoluta. Poiché il progetto, dice la norma, è un elemento essenziale di validità delle co.co.pro, in mancanza ovvero in assenza di un risultato finale (scopo endogeno di una progettualità), si costituisce un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ex tunc. Senza possibilità alcuna per il datore di lavoro di fornire prova contraria.
Il progetto non deve comportare lo svolgimento di un’attività da parte del collaboratore con caratteristiche elementari, semplici, esecutive, ripetitive e routinarie. Per attività esecutive, si intende che il collaboratore non deve svolgere attività eterodirette del committente, perdendo quindi autonomia nell’espletamento dell’attività in funzione della realizzazione del progetto. Attività ripetitive, vuol dire che il progetto non deve basarsi su un’attività del collaboratore di natura elementare e che quindi come tali consentono una ripetitività, senza avere la necessità del coordinamento del committente (basti pensare all’attività di barman). Il progetto per essere genuino deve basarsi su un’attività lavorativa del collaboratore che garantisca allo stesso un ‘autonomia nell’ambito del coordinamento del committente. Competerà alla contrattazione collettiva anche specifica per le collaborazioni a progetto (“CCL”), individuare quelle attività ripetitive e routinarie nonché intrinsecamente eterodirette, che non possono essere parte scheletrica di un progetto. Il ministero del Lavoro, in attesa della normazione collettiva individua una serie di attività che non possono essere oggetto di un progetto perché ontologicamente eterodirette, ripetitive e mancanti di autonomia (baristi, camerieri, addetti alle pulizie..etc). Innanzi a tali attività, qualora oggetto di cocopro, gli ispettori con “presunzione assoluta” convergeranno le collaborazioni in lavoro subordinato a tempo indeterminato con efficacia ex tunc. Sul corrispettivo dei cocopro, la riforma afferma: “si deve individuare un corrispettivo minimo nella misura prevista dai contratti collettivi specifici”. Se esiste nel settore merceologico un contratto collettivo di lavoro che regolamenta il rapporto con il lavoratore a progetto, lì probabilmente si possono individuare i compensi. In tal caso ci si deve allineare al compenso minimo previsto dalla contrattazione collettiva specifica. Ma in mancanza ci si deve rifare al minimo retributivo previsto per i lavoratori subordinati. Cioè il compenso, pari al minimo salariale applicato, nel settore medesimo, alle mansioni equiparabili a quelle svolte dai lavoratori subordinati. La legge 92/2012, ha eliminato ogni riferimento al programma di lavoro ed alle sue fasi, rimanendo la sola riconducibilità del contratto ad un progetto specifico. Si tratta di una modifica sostanziale che impegna le parti contraenti ad individuare in modo netto un risultato finale al quale collegare la prestazione. Con il D.L. n. 83/2012, il Legislatore ha mostrato sensibilità verso le attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzati attraverso call center out bound. In linea con la circolare ministeriale n. 17/2006, sono state mantenute le precedenti condizioni di utilizzabilità del contratto di collaborazione a progetto, escludendolo dalla nuova versione, al fine di mantenere la competitività del settore ed evitare che le società trasferissero all’estero le proprie strutture. Condizione specifica e nuova è data dal fatto che il ricorso a tale tipologia contrattuale è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento. Ad oggi, però, non c’è un contratto collettivo di riferimento e quindi le aziende del settore non possono inserire nuovo personale ricorrendo alle collaborazioni a meno che si ricorra ad accordi di prossimità aziendali, in tal senso regolanti. La questione si complica ulteriormente se teniamo conto del fatto che tali misure derogatorie si applicano alle attività svolte da call center con almeno venti dipendenti “diretti”, limitando di fatto alle imprese di maggiori dimensioni le nuove prescrizioni derogatorie, penalizzando le piccole imprese, ossatura della nostra Italia. Nella risoluzione e recesso dal contratto a progetto viene introdotta una limitazione dal versante committente, il quale può recedere dal contratto a progetto prima della scadenza solamente se se vi è una giusta causa ovvero, dice la norma, se sono emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da inficiare la realizzazione del progetto.
Le riforme alla disciplina del contratto a progetto sembrano destinate a vedere straordinariamente e forzatamente ridotta la relativa diffusione, pur dando conto degli sforzi oggettivi che saranno profusi dai committenti, al fine di sottostare e rispettare i nuovi dettami normativi. In buona sostanza il mercato del lavoro “in entrata”, ha visto realizzarsi una metamorfosi riduttiva per tale fattispecie contrattuale che viceversa aveva conosciuto una straordinaria diffusione nel corso degli ultimi anni, e segnatamente nel corso della fine anni novanta e duemila, a motivo della loro flessibilità e, soprattutto, dalla possibilità offerta ai committenti di poter contare su collaboratori giuridicamente autonomi ma sovente utilizzati con modalità non molto diverse da quelle tipiche del rapporto di lavoro dipendente. Le collaborazioni hanno offerto sensibili convenienze quanto ad oneri sociali, segnatamente ai contributivi previdenziali, quanto al trattamento economico non essendo presente l’applicazione di alcun limite di sufficienza e proporzionalità retributiva essendo invece questa presente nel rapporto subordinato, quanto alle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro non sussistendo le condizioni pesantemente limitative poste per le ipotesi di licenziamento. Considerando nello specifico quanto a titolo esemplificativo è stato esposto, risulta palese comprendere i motivi degli inevitabili abusi ai quali si è assistito. In altri termini, non di rado le collaborazioni sono servite a dare una veste giuridica di comodo a rapporti di lavoro propriamente subordinato. Anche se spesso, per dovere deontologico espositivo non volto all’esclusiva demonizzazione dell’istituto, è opportuno registrare un corretto e sano uso delle collaborazioni finalizzato alla realizzazione di veritieri progetti nell’ambito della struttura impresa. E’ interessante la critica sviluppatasi recentemente per cui l’idea, che la vistosa contrazione del numero delle collaborazioni a progetto possa significare che la riforma del mercato del lavoro stia dando risultati positivi, deve essere assolutamente considerata lontana dalla realtà. Da tale angolo visuale, la riforma Fornero viene vista come una norma incapace di distinguere tra gli abusi che andavano contrastati e i rapporti di lavoro genuini: ciò non ha fatto altro che aumentare il dato della disoccupazione proprio tra chi era occupato con contratti in collaborazione cosiddetti genuini ed il lavoro in nero (Isfol). La somministrazione di lavoro a tempo determinato o indeterminato (cd. staff leasing) di cui all’art 20 e ss. del D.Lgs 276/03 costituiscono, per le analisi giuslavoristiche affrontate in tema di cocopro ed in virtù dello stato di crisi del parasubordinato, una valida alternativa. Un istituto normato in modo dettagliato, nato all’interno del nostro ordinamento giuridico sotto la spinta di un mercato del lavoro sempre più esigente in tema di sana flessibilità e come quindi superamento ragionato del divieto di interposizione di manodopera. Una dissociazione quest’ultima tra il titolare del rapporto di lavoro ed il suo utilizzatore finale, che vedeva nel lavoratore la parte debole e sfruttata dal sistema. Il varo del lavoro interinale, prima, e della somministrazione dopo, rappresentano una eccezione normativa che, aprendo uno spazio mai visto prima all’interno del nostro ordinamento giuridico, prospettano e normano in modo garantista la dissociazione del rapporto di lavoro, tra titolare formale ed utilizzatore, sia pur con dei limiti ben strutturati. Un istituto, quindi, che, data la sua storia, ad oggi è in grado comunque di rispondere in modo efficace alle esigenze di sana flessibilità delle imprese al cospetto soprattutto dell’irrigidimento del concetto di progetto ed alla preclusione dello stesso in molti settori. Una valida misura per combattere il lavoro nero, il lavoro sommerso ovvero il lavoro grigio altamente diffuso con la pratica del “fuori busta”, dinamiche accentuatesi in questo periodo di crisi e di occlusione strumentale giuslavoristica.