Speciale conciliazione preventiva/1. Primi risultati della procedura

Posted by

Mauro Soldera

soldera_17A

Volendo riassumere in poche parole il minimo comune pensiero riguardo le nuove disposizioni della Riforma Fornero in tema di licenziamenti si potrebbe dire: un cantiere aperto.

Affinando l’osservazione si notano critiche più marcate ai profili processuali delle novità legislative rispetto a quelli sostanziali; almeno questa è l’impressione ricavata dalle voci emerse nel recente incontro AGI (Avvocati Giuslavoristi Italiani).

Il nuovo “Rito Fornero” è nato con l’intenzione di concedere una corsia preferenziale e più spedita alla soluzione delle controversie in tema di licenziamenti, i primi mesi di applicazione pare stiano dimostrando che l’obiettivo non può dirsi raggiunto; né rispetto alla celerità, né rispetto alla certezza applicativa. La considerazione è sostanzialmente univoca.

Si può dire altrettanto che i numerosi commenti sul tema non hanno sin qui posto particolare attenzione ad un’ulteriore novità della Riforma: la procedura di conciliazione dinanzi alle Direzioni territoriali del lavoro, obbligatoria in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nelle aziende cui si applichi l’art. 18 (Statuto dei lavoratori).

Correttamente si è osservato che la natura della nuova procedura non è perfettamente coincidente con quella del tentativo obbligatorio di conciliazione cancellato dal Collegato lavoro del 2010: in quel caso il passaggio era obbligato per chi già stesse coltivando l’intenzione di aprire un contenzioso, qui è funzionale al perfezionamento del licenziamento, indipendentemente da qualsiasi volontà di impugnazione. Altrettanto evidente che lo scopo cui tendono vecchia e nuova conciliazione è il medesimo: evitare l’apertura del giudizio.

Ora, siccome la materia (il licenziamento) è spinosa e siccome il nuovo rito giudiziale sta dimostrando notevoli difficoltà applicative ed una conseguente scarsa affidabilità, può valere la pena spostare l’angolo di osservazione e richiamare l’attenzione sulla nuova procedura conciliativa.

E’ vera la considerazione per cui si tratta solo di un ulteriore passaggio burocratico, inutile ed anzi gravoso? Che non aveva senso reintrodurre vista l’esperienza negativa del precedente tentativo obbligatorio e che non potrà funzionare innanzitutto per le difficoltà organizzative degli uffici pubblici?

L’osservazione svolta a riguardo dal Ministero (alla data del 31 gennaio 2013) ci dice in primo luogo che le Direzioni territoriali stanno riuscendo a rispettare le prescrizioni di legge per lo svolgimento della procedura; le quali – ricordiamo – dettano tempi stretti tanto per la convocazione (7 giorni dalla richiesta) quanto per la conclusione (20 giorni dalla convocazione, salva la facoltà delle parti di procedere oltre in pendenza di trattative).

I numeri delle richieste del resto non sono trascurabili: 12.563 dall’entrata in vigore al 31 gennaio, con alcuni picchi considerevoli: 1.042 a Roma, 1.180 a Milano, addirittura 1.450 a Napoli.

Interessante poi analizzare i dati sugli esiti di queste 12.563 richieste: 1.124 risultavano ancora in corso alla data della verifica, in 1.831 casi le parti non si sono presentate, le intese raggiunte sono state 3.958, i mancati accordi 3.638.

E’ evidente che occorrerebbe entrare nel merito degli accordi, ma potrei riassumere cosi la considerazione che sorge da questi numeri: 3.958 accordi sono 3.958 possibili contenziosi in meno, con risparmio di spese per l’avvocato, di tempo per la predisposizione delle prove di difesa, di accantonamenti, di rischio di soccombenza con i relativi oneri… e di sperimentazione delle incertezze del nuovo rito.

Del resto, i contenuti dell’accordo possono essere molteplici: dalla risoluzione consensuale del rapporto senza oneri economici per l’azienda (almeno teoricamente), alla risoluzione per via di un accordo economico, o a seguito dell’affidamento del lavoratore ad una agenzia di ricollocazione finanziata dal datore, fino ad una soluzione alternativa al recesso.

In ogni caso, il “dialogo” svolto nel contesto della procedura, le prove portate per attestare l’impossibilità di una soluzione alternativa, potranno essere utili per contribuire a dimostrare, in un eventuale successivo giudizio, la buona fede del datore nel ricorrere al recesso.

Potrei fornire un contributo in più sul tema, richiamando l’esperienza del comparto delle Agenzie per il lavoro, dove il contratto collettivo del 2008 ha previsto una procedura sindacale obbligatoria in caso di mancanza di nuove occasioni di lavoro per i lavoratori somministrati assunti a tempo indeterminato. Le regole d’ingaggio sono diverse (la procedura delle Agenzie ad esempio dura 6 mesi, con lo scopo di riqualificare il lavoratore e tentarne comunque una ricollocazione), ma gli intenti di fondo i medesimi.

A riguardo vanno dette due cose: la procedura in questi anni si è rivelata effettivamente utile a prevenire il contenzioso; nell’unico contenzioso che è dato conoscere, il giudice (Tribunale di Milano) ha rigettato il ricorso del lavoratore, ritenendo gli “sforzi” svolti nel corso della procedura in grado di dimostrare la buona fede del datore nel giungere al licenziamento come ultima soluzione.

In questo momento (l’occasione è data dalla negoziazione in corso per il rinnovo del CCNL), la sfida del comparto delle Agenzie sul tema consiste da un lato nel rendere le norme della procedura ancora più chiare e fruibili, incrementando al contempo le garanzie per i lavoratori, dall’altro coordinarla con il nuovo obbligo dell’ulteriore passaggio in Direzione territoriale del lavoro, per evitare duplicazioni non utili.

Rispondi