Il lavoro e le sue riforme

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soldera_17A

Mauro Soldera

Vorrei intervenire sul dibattito in merito alla riforme della prossima legislatura.

Avverto subito che non sarò in grado di esprimere ricette salvifiche o realmente innovative per il nostro mercato del lavoro. I sintomi della malattia che lo affliggono, del resto, sono tanto palesi e conclamati che accogliere anche la sola indicazione della semplificazione porterebbe estremo sollievo al paziente. E con ciò non intendo qualche riorganizzazione qua e là, l’ennesima riforma che per ogni capitolo del corposo manuale del lavoro modifichi un qualche elenco, sposti in avanti o indietro un termine, chiami le clausole elastiche flessibili e quelle flessibili elastiche…

Siccome è storia ormai consolidata che ogni cambio di governo non ci lasci liberi da un “opportuno” intervento nel campo del lavoro, ho un filo di terrore al pensiero di una nuova controriforma, ma al contempo non voglio, non riesco, ad abbandonare la speranza che una nuova riforma ci sia; purchè di sole abrogazioni si tratti.

E già questo sarebbe estremamente innovativo a ben pensarci!

Gli avvocati non dovrebbero mai avventurarsi in critiche verso chi ha concesso loro tante e corpose occasioni di lavoro in questi anni e tanto meno suggerire soluzioni che potrebbero ridurne le attività; ma in questo momento è tanto più doloroso il pensiero di dover aggiornare un’altra volta le slide ed i documenti con le nuove modifiche apportate alle possibilità di utilizzo del lavoro accessorio.

Non sfugge il pensiero – in pura provocazione – che una cospicua serie di abrogazioni, del resto, avrebbe l’indubbio vantaggio di salvarci un po’ dalle incerte formulazioni normative sperimentate negli anni. Da quelle norme che appena le leggi già pensi alla futura circolare ministeriale che nella migliore delle ipotesi cercherà di spiegarle, nella peggiore intenderà modificarle in ragione di una qualche “peculiarità di settore”; (con buona pace delle fonti del diritto).

Doveroso fermarsi qui, perché questa strada è troppo facile, va detto.

A voler tentare maggiore serietà, tra le infinite osservazioni e proposte che si esprimono e si potrebbero esprimere sul lavoro, andrebbe detto che il punto essenziale risiede nella necessità che il lavoro sia veramente e profondamente liberato.

Dalle troppe, confuse, sovrapposte, inutili, incongruenti norme è un’evidenza, volendo parlare del “diritto del lavoro”. Ma non è unicamente questo il tema.

Il lavoro – e non semplicemente il suo diritto -, a mio modestissimo parere dovrebbe piuttosto ed innanzitutto essere liberato da un grande equivoco, che con alterne intensità ha percorso gli ultimi anni, o per esplicite intenzioni o per omissioni di parole e atti. Quello per cui sono le norme (giuslavoristiche appunto) a creare l’occupazione; per cui in qualche modo viene prima l’azione su tali norme rispetto all’azione sul “funzionamento dell’economia”.

Concedendosi ad un po’ di banalità, occorre liberarsi e liberare il lavoro dal grande equivoco per cui un’azienda assumerà (con stabilità e consistenza) perché in qualche modo glielo impone la legge. Semplicemente, le aziende non assumono perché lo impone la legge.

Di provocazione in provocazione: la stabilità del lavoro, la sua qualità, sono elementi di estrema importanza, per le persone coinvolte e per il contesto che le circonda; ma volersi soffermare con tanto impegno, dedizione e dettaglio al disegno minuzioso di quando debba scattare la presunzione di irregolarità di un “contratto in P.IVA”, pare come sparare raffiche di mitra in aria, contro il fumo che arriva dalla battaglia che però infuria cruenta a kilometri di distanza.

Gli economisti ci spiegano come, nel nostro Paese, la competizione, non potendosi più esprimere su altri campi (la svalutazione della moneta è spesso portata ad esempio, così come il livello di concorrenza e di innovazione), sia “scesa” sul lavoro e lì si stia sfogando.

Non sono un economista e non mi permetto di addentrarmi oltre. Ma è inevitabile constatare come, su questa scorta, il medesimo grande equivoco abbia generato l’effetto di una pericolosa “flessibilità asimmetrica”, in cui si chiede ai lavoratori di adattarsi a forme di lavoro più flessibili – perché ritenute necessarie nella realtà della nuova concorrenza -, mentre il contesto economico che li circonda nella quotidianità letteralmente “rifiuta” la loro flessibilità (oltre spesso a rifiutare esso stesso la concorrenza), lasciandoli soli.

Di provocazione in provocazione: se il mercato del lavoro fosse dinamico e ricco di alternative, le aziende che avessero intenzione di speculare sul lavoro privando le persone delle corrette garanzie e remunerazioni rimarrebbero presto sole, vuote; senza necessità di tante regole e contenziosi. Suona anche questo molto banale.

Ancora, di provocazione in provocazione: sappiamo che il tema lavoro può essere analizzato sotto molti aspetti; le regole del rapporto tra le parti (l’ingresso, lo svolgimento, l’interruzione), le regole del mercato, gli strumenti di sostegno attivo o passivo… ma il lavoro è anche un fattore della produzione e come fattore della produzione ogni indagine (economica, ancora una volta) ci sta dicendo che la sua capacità competitiva sta drammaticamente scendendo.

Ecco, il timore è che se questo declino non si arresterà – meglio, se la tendenza non invertirà la sua rotta – la scelta sarà sempre più costretta, netta ed evidente: tra scrivere fiumi di norme che, nel susseguirsi di tentativi infiniti, cerchino di comandare, di imbrigliare la realtà, in verità allontanandosene sempre di più, oppure arrendersi alla drammatica evidenza dell’impoverimento del lavoro, nel suo valore e nelle sue garanzie.

Nessuna delle due strade è auspicabile, evidentemente.

Detto ciò, provocazione per provocazione, se proprio la prossima legislatura non potrà portarci in dono 4 pagine di “severe” abrogazioni, potrebbe tuttavia concentrarsi esclusivamente sul lavoro come fattore economico, concedendo(ci) una sorta di moratoria sul resto. Il che, nel mio pensiero, già significherebbe occuparsi di molti e spinosi temi; solo per citarne alcuni: la formazione delle risorse (in origine e continuità), il “dialogo” tra le esigenze dei vari tessuti produttivi e l’offerta delle competenze, il costo, la stabilizzazione delle politiche sulla produttività, il modello delle relazioni industriali, il merito…

Le previsioni sulle possibilità di ricorso al lavoro accessorio in questo passaggio potrebbero anche rimanere inalterate.

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