Gianni Bocchieri
La crisi economica non accenna ad allentare la sua morsa. Le notizie sulla perdita di posti di lavoro sono continue. Molti settori manifatturieri sono in serie difficoltà, determinando una spirale recessiva anche per i servizi terziari. A queste situazioni diffuse si affiancano poi i casi più evidenti di difficoltà di altro e vario tipo, come per ILVA e FIAT.
Ormai, è sempre più evidente che senza ripresa economica non può esserci aumento occupazionale. Il lavoro è sempre meno una variabile indipendente dalla crescita dell’economia. Non bastano nuovi interventi sulla legislazione del lavoro per determinare la diminuzione della disoccupazione, sebbene buone leggi consentano di non perdere tutte le occasioni di lavoro che le imprese sono ancora in grado di determinare. Più che parlare di flessibilità in entrata ed in uscita, si dovrà sempre più considerare la necessità che le imprese non siano disincentivate ad assumere in tutti i casi possibili e per tutte le durate possibili. In assenza di crescita economica, la qualità e l’efficacia della legislazione giuslavoristica sarà sempre più giudicata dalla propensione delle imprese ad adattare la loro capacità produttiva per cogliere tutte le opportunità produttive, con le conseguenti ricadute occupazionali. In altre parole, il diritto del lavoro non dovrebbe mai indurre le aziende a preferire di non produrre di più per non dover assumere, o perché è rischioso assumere a tempo determinato o perché è troppo costoso poter risolvere un contratto a tempo indeterminato.
Ovviamente, non ci si auspica di lasciare mani libere alle imprese senza considerare le esigenze di tutela dei lavoratori. La prima giustificazione di una disciplina speciale per i rapporti di lavoro è proprio data dalla necessità di aiutare la parte più debole in un rapporto di lavoro ovvero i lavoratori. È necessario sempre trovare la giusta composizione tra le esigenze di flessibilità delle imprese e le esigenze di tutela dei lavoratori.
Ci sono diversi casi in cui questa composizione delle diverse esigenze di imprese e lavoratori avviene con strumenti di welfare integrativo, costruiti dai sistemi bilaterali nell’ambito dei diversi contratti collettivi di lavoro. Si tratta di misure di protezione dei lavoratori finanziati da quote aggiuntive di contribuzione delle imprese, che vengono poi gestiti da organismi paritetici delle associazioni datoriali e sindacali. I casi più conosciuti sono i fondi interprofessionali per la formazione continua dei lavoratori, che sono sempre più chiamati ad attuare interventi di sostegno al reddito per i lavoratori coinvolti nelle crisi.
Ci sono poi settori come quello delle agenzie per il lavoro che hanno costruito un sistema bilaterale di prestazioni che si aggiunge ad una robusta bilateralità già prevista dalla legge sia per la formazione, sia per l’integrazione al reddito. I numeri che questa bilateralità sviluppa sono sempre più importanti, a dimostrazione della sua capacità di offrire occasioni di crescita e di tutela per i lavoratori.
La riforma Fornero non ha valorizzato queste esperienze. Anzi, proprio per la somministrazione di lavoro, ha previsto una riduzione dell’1,4% della contribuzione alla bilateralità legislativa, pari all’aliquota della contribuzione ASPI aggiuntiva sugli assunti a tempo indeterminato. In sostanza, seppure sia stata poi rimandata si un anno, per i lavoratori a tempo determinato in somministrazione si è previsto meno contributi al fondo bilaterale e più contributi all’INPS, a prescindere dall’analisi degli andamenti della loro disoccupazione involontaria. Inoltre, è prevista la costituzione di fondi di solidarietà aggiuntivi ai nuovi ammortizzatori sociali, finanziati anche dai fondi bilaterali esistenti, ma costituiti dentro l’INPS. Insomma, piuttosto che incoraggiata, la bilateralità è stata frustata da una visione centrata sull’istituto nazionale di previdenza, chiamato già a gestire il complesso sistema di protezione sociale, talvolta non senza difficoltà.