La circolare emanata mercoledì scorso dal Ministero del lavoro (n. 3/2013) fornisce importanti indicazioni sul computo dei termini applicabili alla nuova procedura di conciliazione preventiva in materia di licenziamento per “motivi economici”.
La procedura inizia con una comunicazione del datore di lavoro, nella quale viene manifestata l’intenzione di risolvere un rapporto di lavoro per un giustificato motivo oggettivo.
Questa comunicazione ha come destinatario principale la Direzione Territoriale del Lavoro (in particolare, la sede del luogo in cui si svolge il rapporto), e non il dipendente (che la riceve solo per conoscenza), in quanto ha lo scopo di richiedere la convocazione da parte dell’apposita commissione di conciliazione.
Secondo la circolare, questa comunicazione deve essere inviata alla DTL per mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, oppure messaggio di posta elettronica certificata (nei confronti del lavoratore è ammessa anche la consegna a mano).
Sono invece escluse modalità alternative, quali – ad esempio – l’utilizzo del fax o della posta elettronica ordinaria; questa scelta appare discutibile, in quanto finisce per appesantire ed allungare inutilmente la procedura.
La circolare chiarisce poi che dal momento della ricezione da parte della DTL della raccomandata, decorre il termine di 7 giorni, entro il quale la Commissione deve convocare le parti per il tentativo di conciliazione. Anche in questo caso, secondo la circolare possono essere usate, per l’invio della convocazione, solo tre modalità (raccomandata, posta elettronica certificata oppure consegna a mani), mentre sono escluse forme alternative di comunicazione.
La convocazione della DTL deve invitare le parti a presentarsi avanti alla Commissione di conciliazione in un giorno che non vada oltre i 20 giorni dalla data di invio.
Se tutte queste comunicazioni vanno a buon fine, le parti si incontrano davanti alla Commissione di conciliazione dove, salvo casi eccezionali, la procedura dovrebbe esaurirsi in un solo incontro; un rinvio è ammesso solo se le chiedono le parti, al fine di raggiungere un accordo, oppure nel caso in cui sussista un “legittimo impedimento” del lavoratore.
In questo caso, la procedura si interrompe per 15 giorni, ma l’assenza deve essere giustificata da una malattia oppure, secondo la circolare, da motivi familiari che trovano una specifica tutela in qualche norma di legge o del contratto. Sommando i diversi termini, abbiamo quindi la procedura dovrà concludersi entro un periodo massimo di circa 42 giorni (7 per la convocazione, 20 per l’incontro, 15 per la malattia), cui si aggiungono i tempi di ricezione delle raccomandate (se viene usato questo mezzzo).
Se la parti alla fine della procedura non raggiungono un accordo, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento, ma la data legale del recesso è quella dell’avvio della procedura (anche se le comunicazioni al Centro per l’impiego sono necessariamente fatte al termine della stessa); il periodo intermedio si considera come preavviso lavorato.
Infine, merita di essere segnalato che la circolare esclude dalla procedura di conciliazione preventiva i casi di recesso per superamento del periodo di comporto. Su questo aspetto le Direzioni Territoriali del lavoro hanno applicato, nei mesi passati, criteri diversi (in Lombardia la procedura non veniva ritenuta necessaria, a Roma invece si, ad esempio).
La lettura ministeriale non risolve ogni dubbio, in quanto, secondo la giurisprudenza, il licenziamento per superamento del comporto, pur avendo natura diversa dal licenziamento per giustificato motivo, deve essere gestito, sul piano procedurale, con le stesse regole previste per quella forma di licenziamento; sarà interessante vedere se, alla luce di questi principi, l’interpretazione della circolare verrà confermata in sede giudiziale.
Infine va ricordato che la mancata applicazione della conciliazione preventiva rende invalido il licenziamento, ma con una sanzione più lieve di quelle ordinarie (indennità variabile da 6 a 12 mensilità, senza reintegra, a meno che non ci sia un’altra e diversa causa di invalidità).