Condotte vessatorie: sì al risarcimento del danno anche senza mobbing

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Marzia Sansone

La prova dell’esistenza di un disegno persecutorio non è più necessaria per ottenere un risarcimento del danno cagionato da condotte vessatorie del datore di lavoro.
La Suprema Corte, infatti, con sentenza n. 18927/2012, ha cassato la pronuncia con cui la Corte d’Appello di Napoli ha respinto la richiesta di risarcimento per mobbing di una lavoratrice, fondando la decisione sulla circostanza che i singoli episodi contestati non erano idonei a dimostrare l’esistenza di una strategia persecutoria attuata allo scopo di indurre la dipendente alle dimissioni.
La Corte, in riforma della sentenza di secondo grado, afferma che “Nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice di merito, pur nella accertata insussistenza di un accertamento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni comportamenti denunciati –esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro…”.
La Corte, dunque, pone l’accento sulle condotte vessatorie le quali, ancorché finalisticamente non accomunate, possono risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati.
Conseguentemente, il risarcimento del danno all’integrità psico-fisica del lavoratore viene svincolato dalla sussistenza dell’intento persecutorio – tipico del mobbing – idoneo ad unificare tutti gli episodi dedotti dal dipendente, e ancorato alla capacità lesiva delle condotte poste in essere dal datore di lavoro.

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